Ricordavamo in un recente articolo, a proposito di salario minimo legale, che se in Italia questo non è previsto non è perché il legislatore ha mancato, ma perché il ruolo forte della contrattazione collettiva ha nel tempo dato certezza salariale ai lavoratori. Certamente, la potente affermazione dei nuovi lavori – finiti ingiustamente quasi tutti dentro il recipiente del lavoro autonomo – ha fatto sì che si creasse una sorta di galassia di soggetti non solo privi di rappresentanza, ma anche di protezioni sociali, quando poi – a parte le alte e le libere professioni – molto spesso si tratta di tipicità riconducibili al lavoro subordinato.



Al di là del fatto che la sentenza della Corte d’appello di Torino sul caso Foodora è determinante rispetto all’iter che farà questa nebulosa a metà strada tra il lavoro autonomo e quello dipendente, restano naturalmente di difficile previsione tempi e modi della transizione verso forme più vicine al lavoro subordinato.



L’idea del salario minimo legale nasce in parte da questo fenomeno e in parte dall’esplosione dei cosiddetti “contratti pirata” che dal 2013 – dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fiat – hanno preso piede nel mercato del lavoro, soprattutto nel settore degli appalti. Per ricordare qualche numero, nel 2010 il numero dei contratti depositati al Cnel era di circa 300, ora siamo quasi a 900. Soltanto 350 di questi 900 contratti sono sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggioritarie (Cgil, Cisl e Uil) e quasi la metà di questi 900 contratti presentano minimi retributivi inferiori del 30% a quelli stabiliti nel perimetro Cgil, Cisl e Uil, creando una vera e propria competizione tra contratti collettivi sulla logica del gioco al ribasso il cui risultato è dumping salariale.



In un primo momento, dopo il 2013, nel sindacato c’era chi invocava un intervento sui criteri di rappresentatività che stabilisse per legge chi è nella condizione di rappresentare le persone che lavorano. Ma le Parti sociali non erano convinte e, soprattutto, non si fidavano del lavoro che il governo (Renzi) e il Parlamento potevano fare in materia. Da qui l’idea di legiferare sul salario minimo, cosa per altro prevista dal Jobs Act, ma rimasta inattuata sempre per la poca convinzione delle Parti sociali. Furono, soprattutto, i timori della Confindustria a fermare Matteo Renzi perché, giustamente, qualcuno si era posto il problema di quale convenienza potessero trovare le aziende ad associarsi una volta fissato per legge il minimo retributivo.

In Europa 22 stati su 28 prevedono il salario minimo. Secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno da Eurofound, nella maggior parte dei casi il livello minimo è fissato su base mensile, ma in Germania, Gran Bretagna e Irlanda c’è anche un minimo orario rispettivamente a 8,84 euro lordi (9,19 da quest’anno), 7,8 sterline (8,21 da aprile) e 9,55 euro (9,80); in Francia il minimo è 1.498 euro al mese (1.521 da gennaio 2019), in Spagna 858 euro (1.050 da inizio anno). Così, il salario minimo sarà legge anche in un Paese, il nostro, in cui la contrattazione collettiva nazionale copre quasi l’85% dei lavoratori?

Questa settimana, la discussione è entrata nel vivo e, come sappiamo, vi sono una proposta del Movimento 5 stelle e una proposta del Pd. I due ddl presentano delle differenze – peraltro anche per quanto concerne la retribuzione oraria (9 euro lordi ddl M5S e 9 euro netti ddl Pd) -, ma, soprattutto, sono diversi per impostazione e finalità: la proposta Pd prevede un salario minimo orario per tutti i lavoratori che non hanno un contratto collettivo di riferimento, il ddl del M5S ha un disegno più ambizioso, perché collega il salario minimo direttamente all’articolo 36 della Costituzione. Di fatto, la proposta M5S avvicina il salario minimo legale a ciò che, storicamente e per giurisprudenza, si è affermato come “minimo retributivo”. Luigi Di Maio pare tuttavia aver capito che qui c’è una criticità…

A parere di chi scrive, non vi sarà una legge sul salario minimo legale; è invasiva e rischia di creare molti problemi ai sindacati e alla contrattazione collettiva, che resta ciò che funziona meglio nel nostro Paese a livello lavoristico. Ciò che può saltar fuori, invece, è semmai una paga oraria minima. Non è soltanto un gioco di parole, l’idea di salario minimo è sbagliata perché si sovrappone alle retribuzioni minime consolidate.

Se, tuttavia, il sindacato permette questa norma (Di Maio non violenterà il sistema della rappresentanza, anzi…), vorrà qualcosa in cambio. E cosa può volere il sindacato? Quantomeno la validità erga omnes dei contratti nazionali, anche per evitare che in qualche modo entrino in collisione la paga minima con i minimi retributivi: questa sarebbe la vera riforma del salario minimo. Va anche osservato che, nello stesso ddl del M5S, è previsto che i minimi tabellari “corretti” – in presenza di una pluralità di contratti – sono quelli sanciti dalla contrattazione collettiva intervenuta tra le parti comparativamente più rappresentative. Questo passaggio dà solidità non solo ai contratti che meglio tutelano le persone, ma va nella direzione di portare ordine anche tra i soggetti di rappresentanza. Saranno, a questo punto, anche introdotti criteri di rappresentatività e di certificazione della rappresentanza? Il sindacato spinge in questo senso.

Questo potrebbe essere l’impianto che Luigi Di Maio e sindacati condivideranno, con buona soddisfazione di tutti. Un’intesa del genere non solo sarebbe un buon risultato per il SuperMinistro del lavoro e dello sviluppo economico, ma rafforzerebbe anche un sindacato oggi non in grande spolvero. E sarebbe un risultato storico. Sempre che, come ammonisce Giuliano Cazzola, non vi si metta la Corte Costituzionale a far cadere l’impalcatura…

Twitter: @sabella_thinkin

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