Le recenti modifiche alla disciplina dei licenziamenti, commentate in più occasioni anche su questa Testata, non hanno direttamente interessato, salvo limitate eccezioni, la categoria dei dirigenti. Nondimeno negli ultimi anni la materia ha registrato sul piano contrattuale e giurisprudenziale significative modifiche anche con riguardo a questa categoria, che occupa attualmente in Italia oltre 100.000 lavoratori.
Com’è noto, la disciplina dei licenziamenti contenuta nell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica (salve particolari eccezioni) ai dirigenti che sono invece soggetti alle disposizioni degli artt. 2118 e 2119 c.c. e della contrattazione collettiva. In particolare, il datore può recedere dal contratto di lavoro con il dirigente, con obbligo di contestuale motivazione previsto generalmente dai contratti collettivi, dando il preavviso o corrispondendo la relativa indennità sostitutiva (salvo il caso di recesso per “giusta causa”, ovvero determinato da un comportamento del dirigente così grave da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto).
Nell’ipotesi in cui, nell’ambito di un giudizio di impugnazione del licenziamento, questo sia ritenuto non solo non sorretto da “giusta causa”, ma anche “ingiustificato”, il dirigente ha diritto al pagamento, oltre che del preavviso, anche della c.d. “indennità supplementare”, ovvero una somma aggiuntiva (non assoggettata a contribuzione previdenziale, a differenza del preavviso) stabilita dai contratti collettivi e generalmente variabile da un minimo a un massimo in relazione alla sua anzianità di servizio.
Secondo la giurisprudenza, la nozione di “giustificatezza” non coincide con quella di “giustificato motivo” che consentirebbe invece il licenziamento della generalità degli altri dipendenti, potendo essere integrata da qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di massima fiducia che deve sussistere tra il datore di lavoro e il dirigente. L’unico caso in cui la legge riconosce al dirigente (così come a ogni altro lavoratore) il diritto a essere reintegrato in azienda è quello del licenziamento discriminatorio (fondato su motivi attinenti a razza, sesso, opinione politica, religione o appartenenza sindacale), ritorsivo o per rappresaglia, ovvero del licenziamento connesso alla paternità o intimato a causa di matrimonio o in forma orale.
La ragione di tale “minor” tutela (riconosciuta legittima dalla Corte Costituzionale già con sentenza n. 121/1972) è da ricercare nella peculiare posizione del dirigente, tradizionalmente ritenuto “alter ego” dell’imprenditore e, quindi, legato a quest’ultimo da un vincolo fiduciario particolarmente “intenso” e, per questo motivo, (olim) adeguatamente tutelato sul piano economico e normativo dai contratti collettivi.
Senonché negli ultimi anni i contratti collettivi dei dirigenti ne hanno drasticamente ridotto le tutele, decurtando sia il preavviso contrattuale, sia la c.d. “indennità supplementare” dovuta in caso di licenziamento “ingiustificato”. E così, mentre fino ad alcuni anni fa i due più diffusi Ccnl (“dirigenti industriali” e “dirigenti commerciali”) prevedevano per i dirigenti neoassunti un preavviso minimo di otto mesi e una “indennità supplementare” di dieci mesi (per un totale di 18 mensilità complessivamente dovute in caso di licenziamento ingiustificato), gli ultimi rinnovi dei Ccnl hanno previsto, per i “dirigenti industriali” neoassunti un preavviso di sei mesi e un’indennità supplementare di soli due mesi; e per i “dirigenti commerciali” freschi di nomina un preavviso di sei mesi e un’indennità supplementare compresa tra quattro e otto mensilità.
Correlativamente, la misura del preavviso e dell’indennità supplementare è stata drasticamente ridotta da tutti i Ccnl per i dirigenti con anzianità di servizio inferiore ai 12/15 anni (ovvero, di fatto, per la maggior parte dei dirigenti) permanendo i “vecchi parametri” (di norma 12 mesi di preavviso e una indennità supplementare massima di ulteriori 18/24 mesi) soltanto per l’esigua parte restante dei dirigenti senior.
Le recenti disavventure dei manager, peraltro, non finiscono qui. Nel mentre i Ccnl attuavano le “tutele decrescenti” dei dirigenti, la giurisprudenza più recente si è dimostrata sempre più severa con i manager nel giudicarne il licenziamento, ampliando le fattispecie sia della giusta causa che della giustificatezza. Poche settimane fa, con sentenza n. 423/2019, la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato la giustificatezza del licenziamento intimato a un dirigente per la “sua partecipazione… alla gestione rivelatasi fallimentare dell’insolvenza del Gruppo P. che, come cliente della Società era stato introdotto proprio da lui e con lui aveva un rapporto privilegiato, per quanto non esclusivamente a lui attribuibile“.
In un altro caso il Tribunale di Milano (sent. 23/03/2017) ha ritenuto legittimo il licenziamento del Condirettore Generale e Amministratore Delegato di una Società che, pur conseguendo importanti risultati aziendali, “a dispetto del suo ruolo, apicale e strategico, … non ha espresso, all’interno dell’azienda, una funzione equilibratrice, da collettore di consensi, provocando, invece, con la sua gestione, prevalentemente autoritaria, tensioni e fratture“.
Ancora, la Corte di Cassazione (sent. 6110/2014) si è occupata del caso del Direttore Generale di un’importante Compagnia di Assicurazione licenziato per aver ripetutamente contestato, con lettere inviate al Presidente della società, alcune Circolari, che riteneva limitassero i suoi poteri, diffidandolo a revocarle e avvertendo che in difetto si sarebbe “tutelato nelle opportune sedi“. La Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’appello secondo la quale non sussisteva la giusta causa di licenziamento in quanto la presa di posizione del dirigente era di per sé “legittima e si fondava su argomenti giuridicamente sostenibili“. Tuttavia, la Corte aveva ritenuto il recesso “giustificato” in relazione alle modalità di reazione del dirigente, definite “assolutamente oppositive“, che lo avevano posto in insanabile rotta di collisione con la Compagnia; e aveva quindi condannato la società a pagare al dirigente la sola indennità sostitutiva del preavviso e non invece l’indennità supplementare.
Anche sul piano “oggettivo”, la più recente giurisprudenza ha ritenuto giustificato il licenziamento del dirigente determinato da esigenze di riorganizzazione aziendale, affermando che esse non debbano necessariamente concretarsi nell’impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di crisi, essendo sufficiente che non siano palesemente “irrazionali” o “arbitrarie”. E così con la recente sentenza n. 436/2019 la Corte di Cassazione ha confermato la “giustificatezza” del licenziamento essendo stato accertato che “i compiti della dirigente erano stati affidati ad un amministratore delegato (figlia del Presidente del C.d.A.), scelta aziendale che rientrava nell’ambito delle decisioni discrezionali del datore di lavoro, e che ne era conseguito un risparmio dei costi“.
Anche la sentenza n. 27199/2018 della Suprema Corte ha ritenuto giustificato il licenziamento del dirigente per soppressione del ruolo a seguito di una riorganizzazione aziendale, ritenendo irrilevante che “una parte delle mansioni … siano state affidate ad un lavoratore assunto alcuni mesi dopo il licenziamento, con l’inferiore inquadramento di Quadro, configurandosi comunque un’effettiva e non pretestuosa rimodulazione dell’assetto aziendale, attesa la non coincidenza delle mansioni e della posizione aziendale“.
Ora considerando che per i non-dirigenti assunti dopo il 7 marzo 2015 la tutela economica in caso di licenziamento illegittimo è stata elevata da un minimo di 6 a un massimo di 36 mensilità aggiuntive al preavviso (per effetto combinato della Legge 87/2018 – c.d. Decreto Dignità – e della recente sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018), viene da chiedersi se oggi a un lavoratore con incarichi direttivi convenga essere assunto come dirigente ovvero – a parità di retribuzione – come “quadro“: non si tratta di una battuta, ma di una domanda che molti manager si stanno ponendo sempre più di frequente. Allo stesso modo inizia a porsi il caso di taluni “quadri direttivi” già in servizio che manifestino la propria ritrosia ad accettare la promozione a dirigente (e le minori tutele che ne derivano), invocando una remota sentenza che ha ritenuto legittimo il diniego del lavoratore a essere promosso alla categoria superiore (Cassazione n. 5192/1994).
In questo contesto, peraltro, sono sempre di più i dirigenti che, al momento dell’assunzione o della promozione, contrattano con l’azienda una tutela individuale “personalizzata” in caso di licenziamento (c.d. “paracadute”) più favorevole rispetto a quella stabilita dai vigenti Ccnl.
Nel groviglio normativo che si è venuto a determinare negli ultimi anni in materia di licenziamento dei lavoratori (e che attualmente vede oltre dieci forme di differenti tutele a seconda del tipo e della dimensione dell’impresa, della data di assunzione e della natura del licenziamento) le attuali – ed effettive – tutele dei dirigenti finiscono forse per penalizzare oltremodo una categoria assolutamente fondamentale per la gestione e lo sviluppo del nostro sistema produttivo.