“Lavorare meno per lavorare tutti”: non siamo negli anni ’70 quando il problema occupazionale suggerì al sindacato quest’idea, ma siamo ai giorni nostri, quando a riproporre la suggestione non è il sindacato bensì Pasquale Tridico, Presidente Inps e figura vicina a Luigi Di Maio. Nel frattempo, si apre un timido dibattito in cui si inserisce il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, secondo il quale la produttività è legata all’orario di lavoro e, avendo già il nostro Paese problemi con la produttività, non si deve ridurre l’orario.



Anzitutto, non è così scontato che l’idea del lavorare meno corrisponda a quella del lavorare tutti: certamente la cosa potrebbe comportare degli effetti occupazionali interessanti in un Paese come la Germania, in cui è il sistema organizzato della grande impresa a trainare l’economia; ma in Italia, laddove è la Pmi a costituire l’ossatura produttiva, l’effetto sarebbe diverso. Ciò non significa che l’idea sia da buttare, anzi…



Come sappiamo, il livello dei salari in Italia è piuttosto stagnante da circa 20 anni: dal 2000 al 2017 si è registrata una crescita media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania la crescita media è di 5mila euro annui e in Francia di 6mila euro annui. Per questo motivo, nel nostro Paese – soprattutto negli ultimi anni – nello scambio tra impresa e lavoro sono sempre più entrati elementi che da una parte vanno a rafforzare il potere d’acquisto (i cosiddetti flexible benefits), dall’altra vanno nella direzione di crescere strumenti di welfare: dalla formazione, alle misure previste per l’assistenza e la previdenza complementare, a tutto ciò che in azienda costituisce valore per lavoratrici e lavoratori (la specifica è dovuta non solo per questioni di genere, ma anche perché le esigenze delle une possono essere diverse da quelle degli altri).



Oltre ai salari che non crescono, occorre tener presente quel che avviene a livello di tassazione sul lavoro e di produttività. Proprio in questi giorni, l’Ocse ha reso noti i risultati del consueto rapporto “Taxing wages” e, ancora una volta, nel nostro Paese si registra un aumento delle tasse sul lavoro: tra il 2017 e il 2018, infatti, il cuneo fiscale è aumentato di 0,2 punti percentuali, passando dal 47,7% al 47,9% (per un lavoratore medio single senza figli) e attestandosi di quasi 12 punti sopra la media Ocse, che è del 36,1% (36,2% nel 2017). Si tratta del terzo cuneo fiscale più alto tra i 34 paesi dell’area Ocse, dopo il Belgio (52,4%) e la Germania (49,5%), dove però i salari sono più alti del 30%. Tra il 2000 e il 2018, il cuneo fiscale in Italia è salito dello 0,8%, passando dal 47,1% al 47,9% per un lavoratore medio single senza figli, contro un decremento nei Paesi Ocse dell’1,3%, dal 37,4% al 36,1%.

Il basso livello dei salari italiani si spiega, naturalmente, non solo con l’alto cuneo fiscale, ma anche con la scarsa crescita della produttività: nel periodo 1995-2015 – fonte Istat – la produttività del lavoro è aumentata a un tasso medio annuo dello 0,3%. La crescita della produttività in Italia è risultata, infatti, decisamente inferiore alla media Ue (+1,6%) e all’area euro (+1,3%). Tassi di crescita in linea con la media europea sono stati registrati per Francia (+1,6%), Germania (+1,5%) e Regno Unito (+1,5%). In Spagna il tasso di crescita (+0,6%) è stato più basso della media europea, ma più alto di quello italiano.

Naturalmente, la produttività oltre che dal fisco è frenata da altri fattori di sistema come la burocrazia invasiva, la giustizia lenta, gli alti costi energetici e la debolezza della rete infrastrutturale. Resta il fatto che nel nostro Paese va registrata la difficoltà di costruire uno scambio virtuoso tra impresa e lavoro.

Soprattutto per questo motivo, l’ipotesi della riduzione dell’orario va vista con la giusta attenzione, perché il benessere dei lavoratori, come si diceva prima, è sempre più elemento che entra nello scambio; chiaro che la riduzione dell’orario possa andare in questa direzione. Laddove, inoltre, vi sono casi di riduzione dell’orario, vi è la produttività individuale che cresce e, infine, compito che le rivoluzioni industriali hanno storicamente assolto è quello di emancipare il lavoro dalla fatica. Nell’era di Industry 4.0 l’emancipazione è sempre più nel segno della conciliazione vita-lavoro. Che non significa, automaticamente, distribuzione del lavoro, al di là del gap di ore lavorate che si viene a creare. Di questi tempi, è la stessa tecnologia a colmare questo gap.

Twitter: @sabella_thinkin