Il punto non è salario minimo sì o no, ma, absit iniuria verbis o meglio si parva licet componere magnis (passateci lo sfoggio, ma ogni tanto a una certa età la nostalgia liceale diviene irrefrenabile e se la moglie sul tema ormai ha preso l’abitudine di darti del lungo, ti restano da perseguitare solo i poveri e incolpevoli lettori), il tema è di uscire dal consueto dilemma per pensare in modo nuovo. In fondo, come disse un Tale di cui in questi giorni si celebra la morte e, soprattutto, la Resurrezione, si tratta di fare una cosa nuova e non invece di tornare al trito dilemma se sia meglio il bianco (cioè il salario minimo per contratto) o il nero (cioè il salario minimo per legge).



Certo allora la questione riguardava il destino di una donna così fortunata da incontrare la sua Salvezza proprio dove alcuni la volevano mettere a morte, ma in fondo proviamo a pensarci: è così diverso il destino degli italiani, o meglio il destino degli italiani che hanno un lavoro, che è come dire l’87% degli italiani maggiorenni e under 60? Ardito paragone, penserà qualcuno, ma quando non sai come arrivare alla quarta settimana, quando il sovraindebitamento bussa alla tua porta, quando il mutuo bancario diviene una sorta di capestro, beh allora la disperazione non è solo dovuta, ma quasi perfin necessaria.



Il punto infatti non è la disperazione, ma la risposta che le si dà. Seguiamo dunque la metafora evangelica, ma al contrario. Qualcuno, i più giovani, ma non facciamo nomi per carità di elezioni, ci ha pensato distribuendo un salario a tutti i senza lavoro a patto che si trovi un lavoro: cioè, siccome non trovi un lavoro ti do i soldi se lavori. Il che, ne converrete, ha una sua logica: perversa e vagamente metafisica, ma ce l’ha. Solo che chi ha fame tende a lasciar perdere la metafisica e a concentrarsi sulla fisica, anzi sul fisico. E lo fa sapere attraverso i sondaggi. E così essi sono stati gli ultimi ad andarsene dalla piazza e a mollare le pietre che già avevano in mano.



Altri, arrivati un po’ prima di loro e un po’ meno giovani, hanno pensato che fosse necessario fare contratti nazionali che andassero bene a tutti, a chi doveva sganciare i soldi e a chi doveva riceverli. Ottima idea, ma più che metafisica era decisamente platonica, perché chi aveva i soldi spiegò loro che o tutto stava così o se ne sarebbero andati altrove, Cina o Romania poco importa. Che andava bene dare soldi agli italiani, ma l’importante era che a pagare fossero altri e non loro. Le aziende, quando pagavano le tasse, davano già troppo. E quindi anche loro in un incontro con i sindacati, fecero sapere che se ne sarebbero andati dalla piazza e qualcun altro lapidasse la poveraccia.

Restavano loro, i più anziani del settore: sono stati al governo, a bienni alterni, per oltre 25 anni predicando a seconda dei momenti e dei capi la secessione, la rivoluzione, l’autonomia, l’indipendenza, la fuga in Baviera e la fuga dalla Baviera: la loro idea è, era?, di far pagare meno tasse a quelli che già ne pagano poche per far sì che avendo, chi è ricco, più soldi in tasca costui possa spenderli più e meglio e questo renderà ricchi i poveri. Il che è bizzarro in sé, ne converrete, ma da quando gli hanno spiegato che alla fine chi deve pagare il conto, cioè ancora gli italiani dipendenti e lavoratori, non sarebbe felicissimo di sapere che il suo sacrificio renderà ricco chi già oggi lo è, anche loro pare abbiano lasciato la piazza e rinunciato.

“Donna se nessuno ti condanna neanche io ti condanno”. Il problema, oggi come allora, non è però sapere se la donna, pardon il salario minimo, sia giusto o no, ma decidere come arrivarci. E ora la strategia sindacale, della Cisl nello specifico, inizia a dare i suoi frutti.

Anche questo governo, come i precedenti governi (Berlusconi 1, bis e ter; Prodi 1, bis e ter; tecnici 1, bis e ter), aveva iniziato all’insegna del “È giusto che i sindacati abbiano ancora un ruolo? No. Lapidiamoli quindi, come dice la legge” (non quella di Mosé che era un saggio e ispirato, ma quella del deputato di turno decisamente meno ispirato). Solo che non si è mai riusciti a lanciare la prima pietra: questione di decidere chi doveva rinunciare a gestire i problemi, a trovare le soluzioni concrete per qualche milione di italiani. Ma questione anche che quella pietra che di volta in volta è volata è finita addosso al lanciatore: Fornero docet. Così si è stati costretti a trovare le mediazioni, le soluzioni.

Torniamo al problema: salario minimo per legge? Ma no, perché se per legge lo si stabilisce per legge si dovrebbe cambiarlo e vatti a fidare delle leggi. E soprattutto: se il minimo per legge è più basso di quello per contratto, perché io, azienda, dovrei pagar e di più del dovuto? Si vabbé, le aziende sono dei padri nobili e dei generosi donatori di sangue, sono delle benefattrici dell’umanità guidate da tante Madre Teresa di Calcutta. Ma diciamo, come a Sodoma e Gomorra, anche lì qualche peccatore si annida tra i molti giusti.

Da anni la Cisl è stata capofila nella discussione, sostenendo che non di una soluzione giuridica si deve parlare, bensì di un minimo orario che valga per tutti e che scavalchi quella pletora di contratti farlocchi e briganteschi firmati da sindacati fondati il giorno prima magari con il contributo fattivo di qualche imprenditore, e nei quali si legge di tutto: da un salario minimo di 3 (tre!) euro l’ora, a ferie di fatto non retribuite, alla malattia completamente scoperta. Il Cnel, che è una nobile e dignitosissima invenzione sussidiaria ma che ha, diciamo, nel tempo un po’ perso di smalto, almeno in Italia, ne è pieno e li raccoglie con minuziosa e certosina cura.

Contratti fasulli ma che troppi imprenditori, nascondendosi dietro il costo del lavoro, usano a man bassa: tranne lamentarsi che pochi italiani possano oggi permettersi di comperare quegli stessi beni che loro producono a poco e vendono a molto. Ma “no tengo dinero” gridano in troppe famiglie! Torniamo allora alla proposta Cisl che pare aver convinto oltre ai più giovani politici anche i mezzani e i più vecchi: non si deve fissare per legge il salario minimo, ma accettare il valore minimo per ora di lavoro come stabilito dai Contratti nazionali firmati da chi rappresenta i lavoratori, cioè dalle organizzazioni rappresentative; si deve intervenire rispetto alle false cooperative, cioè a quelle realtà che fanno impresa sfruttando gli ultimi e non invece il contrario; occorre abbassare le tasse sul lavoro partendo non dalle partite Iva (cioè da quel settore in cui si raggiungono picchi notevoli di, diciamo, “Alzheimer fiscale”), ma dai redditi più bassi.

Insomma, eliminare le retribuzioni da 4-5 euro l’ora è possibile. Purché però non si trasformi tutto nel solito insulso dibattito se sia meglio una cosa o l’altra. Se il meglio è nemico del possibile è già un problema, ma quando il Governo usa il meglio per impedire di raggiungere il possibile allora siamo nelle pettole. O in campagna elettorale: fate voi.

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