Con i soliti 60 giorni di ritardo dovuti ai tempi necessari all’elaborazione, l’Istat ha pubblicato i dati sul mercato del lavoro relativi al mese di febbraio. Anticipando la sintesi finale si può dire che con questo mese l’impatto delle politiche economiche avviate dal Governo del cambiamento arrivano sul mercato del lavoro e segnano negativamente i risultati mensili e introducono il segno di una nuova recessione.



In termini di andamento si registra il calo di 14 mila unità fra gli occupati con composizione pressoché paritaria fra maschi e femmine. Confrontando il dato su base annuale, l’occupazione segna ancora un +113 mila. Ma il tasso di occupazione torna a scendere e siamo stabilmente penultimi (davanti alla Grecia) fra i paesi europei. I disoccupati crescono di 34 mila unità. Sono quelli che hanno perso il lavoro a cui si aggiungono lavoratori inattivi che sono tornati a cercarlo.



Per quanto riguarda la composizione di chi ha perso lavoro si registrano ben 33 mila occupati a tempo indeterminato in meno e anche il calo di 11 mila occupati a tempo determinato. Quindi il saldo di -14 mila occupati complessivi è dato dalla scomparsa di ben 44 mila posti di lavoro dipendente e un incremento di 30 mila lavoratori autonomi.

Non si può su base mensile trarre giudizi definitivi, ma certo questo dato apre a una riflessione che dovrebbe portare a capire se il cambiamento riguarda una trasformazione strutturale della composizione del mercato del lavoro o se è invece il riflesso con cui si sta reagendo agli aspetti recessivi dell’economia con un adattamento occupazionale indotto dalle convenienze contrattuali. Certo anche il dato annuale (+70 mila autonomi) indica che, dopo un periodo che aveva visto prevalere il lavoro dipendente, il lavoro autonomo torna a crescere con un tasso superiore a quello del periodo pre-crisi.



Nonostante il decreto “dignità” fosse mirato a contenere il lavoro a tempo determinato, l’economia reale mostra una tendenza opposta. I lavoratori permanenti negli ultimi 12 mesi sono calati di 65 mila unità e i tempi determinati sono cresciuti di 107 mila. Le rigidità introdotte per legge, come già avvenuto in passato, non riescono a prevalere sulle bronzee leggi dell’economia.

I giovani continuano a essere penalizzati nell’entrata sul mercato del lavoro. Nel confronto mensile a febbraio crescono maggiormente (+0,3%) i lavoratori fra i 25 e i 34 anni. Ma sul dato annuale sono gli over 50 a segnare una crescita (+1,7%) più che doppia rispetto ai lavoratori under 35. Quindi abbiamo un ulteriore rallentamento dell’occupazione giovanile, un aumento della disoccupazione dovuto anche alla crescita dell’offerta di lavoro e un calo del lavoro dipendente.

Se il decreto dignità doveva assicurare lavori più continui e stabilizzare quanti erano a termine non si può dire che abbia ottenuto risultati vicini alle aspettative. Gli occupati a tempo indeterminato erano 14.851.000 ad agosto 2018, il mese prima dell’entrata in vigore del decreto dignità, e sono 14.837.000 a febbraio 2019 dopo sei mesi di applicazione del decreto.

A queste considerazioni di medio periodo che si possono incominciare a svolgere rispetto alle politiche governative, si può aggiungere qualche prima previsione rispetto alle politiche più caratterizzanti le scelte del Governo. Per entrambi i leader giallo-verdi sia il reddito di cittadinanza che “quota 100” per le pensioni sono misure che dovrebbero spingere a creare nuova occupazione. Il reddito di cittadinanza perché ritenuto per larga parte una politica attiva del lavoro che, attraverso il rilancio dei Centri per l’impiego e i famosi navigator, dovrebbe riportare al lavoro molti dei fruitori del sostegno al reddito con l’offerta di nuovi posti di lavoro. Quota 100 dovrebbe invece creare nuove opportunità lavorative per coprire i posti lasciati liberi da chi potrà usufruire dell’anticipo pensionistico.

Tralasciamo qui i commenti al merito dei provvedimenti e ai ritardi nell’applicazione delle misure “pro labour” del reddito di cittadinanza a causa del ritardato avvio dei rinforzi per i Cpi e vediamo solo le proiezioni numeriche deducibili dei primi dati certi. Per Quota 100 vi sono state 100 mila domande nei primi mesi e si prevede saranno 300 mila per fine anno, oltre a 40 mila anticipi già in corso e 10 mila “Opzione donna”. Prevedendo un 75% di domande accolte avremmo 250 mila lavoratori in uscita. Di questi il 17% sono autonomi senza quindi previsione di rimpiazzo. Il 30% sono dipendenti della Pa che potrà sostituirne solo una minima parte stante la normativa di contenimento della spesa pubblica. Anche fra i rimanenti dipendenti privati molte imprese useranno gli anticipi pensionistici per riorganizzare e sfruttare incrementi di produttività o rinunciare a licenziamenti.

Il risultato, secondo i centri studi che hanno operato queste analisi, porta a un saldo negativo di 130 mila posti di lavoro, quasi tutti fra lavori dipendenti con tempo indeterminato. Avremo così un contributo recessivo ancora più forte di quanto registrato in questi mesi sul mercato del lavoro. Anche il reddito di cittadinanza, stante lo scarso impatto come politica del lavoro, può spingere chi lavora a basso reddito e non ha maturato coperture da Naspi a rinunciare all’occupazione perché converrebbe il reddito assicurato.

Sono solo le prime previsioni, ma tutte convengono nel ricordare che per creare nuovi posti di lavoro è necessario tornare a investire e far crescere l’economia. Più debito per pagare il non lavoro apre una nuova recessione con meno lavoro per tutti.