In questi giorni è stato annunciato in Aula al Senato il disegno di legge S. 1232 del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro per la creazione di un codice unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) da realizzare in collaborazione con Inps. Il Ddl, presentato ai sensi dell’articolo 99, comma 3 della Costituzione e approvato dall’Assemblea del Cnel nella seduta del 27 marzo 2019, definisce il codice unico di identificazione dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro nazionali depositati e archiviati, attribuendo una sequenza alfanumerica a ciascun contratto o accordo collettivo.
L’intesa tra Cnel e Inps prevede che quest’ultima inserisca il codice dei contratti nella disciplina relativa alla compilazione digitale dei flussi delle denunce retributive e contributive individuali mensili, con relativo obbligo del datore di lavoro di indicare per ciascuna posizione professionale il codice Ccnl riferibile al contratto o accordo collettivo applicato.
Come abbiamo più volte riportato, attualmente al Cnel risultano depositati ben 888 accordi suddivisi per i diversi settori lavorativi per cui esiste un corrispondente contratto collettivo nazionale. Di questi 229 solo nel commercio e 110 in istituzioni private, enti assistenziali, sanitari e terzo settore.
“Con la presente proposta – ha detto il presidente del Cnel, Tiziano Treu -, a costo zero per le casse dello Stato, il Cnel assume il potere di attribuire ai contratti collettivi depositati un codice unico alfanumerico, in cooperazione con l’Inps, alla luce della rinnovata collaborazione istituzionale per mettere a sistema le rispettive informazioni e costituire il primo nucleo di un’anagrafe comune dei contratti collettivi organizzata in un’ottica di servizio pubblico. In questo modo, viene identificata in capo al Cnel la titolarità della funzione di codifica dei contratti attraverso l’unificazione delle rispettive procedure esistenti. L’Inps, di conseguenza, utilizzerebbe tale numerazione per le proprie finalità istituzionali (verifica del rispetto dei minimali contributivi eccetera), ottenendo dal Cnel la mappatura costantemente aggiornata dello stato della contrattazione collettiva di livello nazionale. Tale proposta tiene conto di una ricognizione della legislazione vigente e della prassi amministrativa”.
Nel nostro ordinamento i datori di lavoro privati non hanno l’obbligo di applicare in azienda un determinato contratto. Possono benissimo coesistere molteplici accordi collettivi nazionali nello stesso settore di riferimento. Ogni organizzazione è libera di auto-definirsi rappresentativa e di concludere con una controparte un accordo “nazionale” nello stesso settore già coperto da altri accordi “nazionali” firmati da organizzazioni concorrenti.
Soprattutto dopo la sentenza della Consulta del luglio 2013 sul caso Fiat è esploso questo fenomeno della proliferazione dei contratti. Da una parte veniva pienamente legittimata la contrattazione oltre il perimetro confindustriale, dall’altra perché si era aperto un vuoto normativo in grado di definire dei criteri di rappresentatività: è chiaro che un contratto che copre un milione di lavoratori è diverso da un contratto che ne copre 52. Va anche detto che i contratti meno rappresentativi sono quelli che hanno fortemente alimentato il problema del dumping salariale, per cui si è arrivati a parlare di salario minimo.
L’iter del Ddl sulla rappresentanza è iniziato. E il fatto che parta dal Cnel – e da Tiziano Treu – è un’ottima notizia.
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