Dai brogliacci degli emendamenti sulla Legge di bilancio che stanno volando da una stanza all’altra, una polpetta avvelenata, spacciata per grand gourmet, riguarda i congedi lavorativi sia per maternità che per paternità. Riecheggiano due provvedimenti a detta del Governo “innovativissimi” sul congedo di maternità e il congedo di paternità. Il congedo di maternità è obbligatorio ed è a tutela della madre lavoratrice e del nascituro – Testo Unico n.151/del 2001 – e prevede l’astensione dal lavoro per un periodo di cinque mesi a cavallo della fine gravidanza a parto. La legge prescrive che si vada in maternità due mesi prima del parto e fino a tre mesi dopo il parto. Ma permette anche una certa flessibilità – art. 20 – offrendo già l’opportunità alle mamme, compatibilmente con il tipo di lavoro svolto e con il loro stato di salute, di astenersi dal lavoro un mese prima della gravidanza e stare con il neonato per quattro mesi dopo la sua nascita e in questo periodo la lavoratrice viene retribuita con un’indennità pari all’80% dello stipendio. L’emendamento previsto in Legge di bilancio pare dia la possibilità di posticipare entrambi i 2 mesi andando a lavorare fino al 9° mese.
È bene ricordare che già da ora tale “flessibilità” comporta una documentazione che attesti sia da parte del medico di base, che dall’Asl che dal medico competente aziendale, nonché da un attestato sottoscritto sia della lavoratrice che dal datore di lavoro, che nulla osta a questa procedura. Sempre il TU 151 prevede che possono richiedere la maternità anticipata le future mamme lavoratrici che svolgono mansioni particolarmente pesanti e, quando vi sono rischi per la propria salute e per quella del bambino, l’Inps riconosce il diritto a stare a riposo e percepire la stessa indennità riconosciuta per il periodo di congedo di maternità.
Questa possibilità di posticipare e andare al lavoro fino al 9° mese, ammesso che sia richiesta dalle stesse lavoratrici, è figlia di una politica efficientista che sicuramente non aiuta le donne a scegliere la maternità, posto che l’occupazione femminile è sempre e drammaticamente bassa nel nostro Paese. I dubbi su questo provvedimento sono legati a dati che parlano da soli. Recentissimi i numeri Istat ci dicono che nascono ogni anno sempre meno bambini: nel 2017 gli iscritti all’anagrafe sono stati infatti 458.151 (in calo di 15 mila unità rispetto al 2016), di cui circa 68 mila stranieri (14,8% del totale), anch’essi in diminuzione rispetto allo scorso anno. Si tratta del minimo storico per il nostro Paese dall’Unità. In età riproduttiva nel 2000 tra i 20 e i 45 anni c’erano 10,5 milioni di donne, oggi ce ne sono 7,6 milioni e ce ne saranno appena 6,2 milioni nel 2040.
I dati del rapporto del ministero del Lavoro sulle dimissioni volontarie convalidate nel 2017 sono drammatici: su 35.000 ben 27.443 sono di lavoratrici madri e le cause dichiarate dalle stesse sono per ben 13.851 per mancanza di conciliazione tempi di vita e di lavoro, altre per i costi del nido, altre perché non hanno l’aiuto dei parenti, altre perché l’azienda non ha concesso flessibilità di orario.
Oggi le donne per poter lavorare fanno i salti mortali e non esiste sicuramente una politica né di sostegno fiscale per le lavoratrici, né welfare che preveda servizi per l’infanzia e per assistenza agli anziani. Questa “scelta” volontaria di poter lavorare fino al 9° mese sarà spesso coatta e faticosissima alla faccia dei diritti costituzionali e del Governo del cambiamento: pur di entrare e rimanere nel mercato del lavoro si accettano condizioni pericolose per se stesse e per il bambino.
Quanto poi al congedo di paternità, istituito dalle legge 92 del 2012, è stato ampliato da 2 a 4 giorni dalla legge di Bilancio 2017. Certo si trattava di una sperimentazione valida solo fino al termine del 2018. È rivolto ai padri lavoratori dipendenti entro il quinto mese di vita del figlio (nato dal primo gennaio 2018), quindi sono giorni che possono coincidere anche con la maternità. A questi quattro giorni se ne può aggiungere un quinto facoltativo, fruibile però solo se la madre rinuncia a un giorno del suo congedo.
Durante il congedo il padre ha diritto al 100% della retribuzione che è a carico dell’Inps. Dunque l’emendamento per passare da 2 a 4 giorni non è una novità e sarebbe solo una proroga al 2019 e continua la discriminazione per cui alla madre è riconosciuto l’80% della retribuzione, mentre al padre il 100%. In più c’è da dire che il congedo di paternità dai dati del Ministero è usato solo dal 20% dei possibili fruitori e probabilmente abbiamo ancora nel nostro Paese un problema culturale paterno rispetto al tempo da dedicare ai figli: non è raro che alcuni dei padri che lo hanno chiesto, soprattutto nelle imprese private, siano stati criticati e ridicolizzati dai colleghi e guardati con insofferenza dal datore di lavoro.
Dunque dobbiamo andare molto oltre – per sostenere la genitorialità – ai provvedimenti precari, soprattutto non strutturali come si è ormai abituati: vanno corrette le storture del sistema di aiuti alle coppie con figli che vengono erogati esclusivamente ai genitori con lavoro dipendente e le detrazioni per figli a carico solo a chi è in grado di pagare le tasse ed escludendo dunque le coppie senza lavoro; l’accesso ai nidi non è quasi mai condizionato al reddito che tuttavia si rileva ai fini della retta, e soprattutto la sperequazione è fra il 20% dei piccoli che riescono a entrarci per cui la Pubblica amministrazione versa mediamente 800 euro al mese e chi non ci entra per cui lo Stato non versa nulla. Pochissime poi le scuole per l’infanzia pubbliche, pochissimi i servizi convenzionati per gli anziani e i non autosufficienti.
Sempre dai dati del Ministero, pochissimi poi ancora gli accordi di secondo livello soggetti ad agevolazioni fiscali e contributive previste per la flessibilità aziendale che si coniuga alla produttività. In cattiva sostanza, nessun Governo del cambiamento.