La Corte costituzionale ha rottamato il contratto a tutele crescenti con una sentenza (la n. 194) pubblicata l’8 novembre (Relatore Silvana Sciarra), ma già annunciata sin dal 26 settembre, dichiarando incostituzionale l’art. 3, comma 1, D.lgs. n. 23 del 2015, “limitatamente alle parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio»”.
Il nuovo testo “sforbiciato” dalla Corte costituzionale è ora il seguente: “Nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
L’incostituzionalità ha investito dunque l’ancoraggio fisso dell’indennità risarcitoria al solo parametro dell’anzianità di servizio, in una misura certa predeterminata dal legislatore (due mensilità per ogni anno di servizio). Per la Corte, “in una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia”, sia pure “entro una soglia minima e una massima”. Il giudice non può essere costretto a un calcolo matematico dell’indennità spettante (due mensilità per ogni anno di servizio): la “discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore”, ed è “imposta dal principio di eguaglianza”. Quella predeterminazione fissa, inoltre, “contrasta con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente”.
La Corte costituzionale che pure aveva dichiarato inammissibile il referendum promosso dalla Cgil per rottamare il Jobs Act (reo di avere rottamato l’art. 18), lo ha poi rottamato in un giudizio promosso da una lavoratrice assistita dalla stessa Cgil. A essere “rottamato” è stato proprio il nucleo essenziale delle “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”: la predeterminazione certa e rigida dell’indennità da licenziamento illegittimo.
Il titolo mistificatorio del D.lgs. n. 23 del 2015 (usato per indorare la pillola della diminuzione delle tutele in caso di licenziamento per i nuovi assunti, non più tutelati dall’art. 18) è stato cancellato dalla Corte costituzionale: non esisteranno più “tutele crescenti” (leggasi: “indennità da licenziamento legittimo”) in ragione della sola anzianità di servizio.
Ma cos’è cambiato in concreto? E quali licenziamenti sono interessati al cambiamento? Rispondiamo prima alla seconda domanda. Sono interessati al cambiamento tutti i licenziamenti già intimati o da intimare a lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, purché non oggetto di sentenza passata in giudicato o di accordo conciliativo o ancora impugnabili entro i termini di decadenza. Ciò perché le norme dichiarate incostituzionali non possono “avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 30 l. n. 87 del 1953). Per i licenziamenti in questione il giudice si vede restituito il proprio potere discrezionale e potrà riconoscere al lavoratore ingiustificatamente licenziato un’indennità compresa tra 6 e 36 mensilità in ragione non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri parametri, quali quelli indicati nell’ultima parte dell’art. 18 comma 5, l. n. 300 del 1970.
Del resto, abbiamo già una prima applicazione giurisprudenziale anticipata della sentenza. Il Tribunale di Bari, infatti, si è portato aventi con il lavoro, e, senza attendere la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, ha ritenuto di poterne anticipare gli effetti attraverso una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 3, primo comma, D.lgs. n. 23 del 2018. Se avesse rinviato la causa di un paio di mesi in attesa della pubblicazione della sentenza non ne avrebbero parlato tutti i giornali.
E così a un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 (entrata in vigore del D.lgs. n. 23 del 2015), ma licenziato prima del 14 luglio 2018 (entrata in vigore del D.L. n. 87 del 2018) al quale avrebbe dovuto riconoscere un’indennità di appena 4 mensilità per l’illegittimità del licenziamento collettivo derivante da vizi delle comunicazioni ex art. 4, comma 2 e 9 l. n. 23 del 199,1 il Tribunale di Bari ne ha riconosciute 12 in applicazione dei parametri di determinazione dell’indennità di cui all’art. 18, comma 5, e dunque “tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti“.
La logica dell’art. 18 – che affida al giudice il potere di determinare discrezionalmente l’indennità di licenziamento illegittimo – si è così insinuata prepotentemente nel Jobs Act sovvertendone la logica essenziale: quella di un licenziamento a costo fisso predeterminato dal legislatore; quella del licenziamento automaticamente e tautologicamente giustificato dall’essere il datore di lavoro disposto a sostenerne il costo purché certo (severance cost). Come dire: se ho deciso di licenziarti un motivo ci sarà visto quanto mi costa e sono disposto a spendere. Se poi quel motivo riesco persino a provarlo nemmeno quel costo dovrò sostenere!
La logica mercantilistica di labour law and economics sottesa al Jobs Act – che per la verità con la dignità del lavoro c’entra ben poco – era stata sposata appieno dal famoso Decreto Dignità voluto dal nuovo Governo, che si era limitato ad aumentare il severance cost per il datore di lavoro sostituendo le parole “non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” con le parole “non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità” nell’art. 3, comma 1, del D.lgs. n. 23 del 2015, tenendo ferma la regola che ancóra l’indennità di licenziamento ingiustificato esclusivamente all’anzianità di servizio (“importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”).
Dunque, la portata della riforma sarebbe stata addirittura pari a zero per dipendenti con anzianità di servizio da 3 a 12 anni, mentre un lavoratore assunto l’8 marzo 2015 avrebbe avuto diritto al massimo di 36 mensilità solo se licenziato ingiustificatamente a decorrere dall’8 marzo del 2028! Ciò teoricamente, perché in dieci anni chissà a quante nuove riforme assisteremo. Poi la sentenza della Corte costituzionale ha cambiato tutto e l’indennità non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità prevista per i nuovi assunti dall’art. 3, primo comma, D.lgs. n. 23 del 2015 ha assunto l’identico significato dell’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 prevista dal quinto comma dell’art. 18, per i vecchi assunti: quello cioè di un’indennità determinata discrezionalmente dal giudice tra un minimo e un massimo.
E allora ecco profilarsi all’orizzonte la prima riforma della disciplina dei licenziamenti che appare ormai inevitabile e urgente alla luce del “combinato disposto” tra Decreto Dignità e sentenza della Corte costituzionale. Un regime differenziato tra vecchi e nuovi assunti rispetto a una data (7 marzo 2015) che di storico e di memorabile non ha proprio nulla (e serviva forse solo a compiacere la vanità di chi voleva dimostrare empiricamente che un’esplosione di contratti a tempo indeterminato fosse la diretta conseguenza di una legge partorita da una mente “geniale”) non ha più alcun senso. Basta confrontare la disciplina applicabile rispettivamente a vecchi e nuovi assunti alla luce di quel combinato disposto (tra Decreto Dignità e sentenza della Corte costituzionale) dovuto a pura casualità.
A parte le ipotesi di licenziamento discriminatorio, vietato, per motivo illecito, verbale (che anche per i nuovi assunti comportano la tutela reintegratoria piena), i vecchi assunti assoggettati all’art. 18, possono ancora confidare sulla “speranza” di essere reintegrati nel posto di lavoro. Ciò sia in caso di licenziamento disciplinare (il fatto contestato insussistente, o punito con sanzione conservativa, che porta alla reintegrazione equivale al fatto giuridicamente idoneo a giustificare il licenziamento, come chiarito dalla Suprema Corte che ha così frustrato le intenzioni di un legislatore sprovveduto), sia in caso di licenziamento per ragioni aziendali (manifesta insussistenza del fatto posto a base del giustificato motivo oggettivo; violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi). Per i neoassunti, invece, la reintegrazione equivale alla resurrezione di Lazzaro nell’intenzione di un legislatore che ha fatto finta di conservarla soltanto in ipotesi di licenziamento disciplinare e soltanto se il lavoratore ha la fortuna di essere in grado di dimostrare direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato anche se di irrisoria gravità.
Ma la tutela reintegratoria per i vecchi assunti ha una compensazione importante nel limite massimo di dodici mensilità, potenzialmente eroso peraltro dalla detraibilità dell’aliunde perceptum e percipiendum. Se avesse trovato un altro lavoro cui non volesse rinunciare o dovesse comunque optare per l’indennità sostitutiva della reintegrazione il lavoratore avrebbe diritto soltanto a un’indennità massima di 27 mensilità (15 più 12).
La tutela indennitaria per i nuovi assunti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, supera abbondantemente il massimo previsto per il lavoratore che opti per le 15 mensilità, e supera altresì la tutela indennitaria massima per i vecchi assunti. E se è vero che il giudice terrà conto della minore anzianità di servizio di un neoassunto nel determinare l’indennità risarcitoria, anche per non differenziare ingiustificatamente la tutela rispetto a un vecchio assunto, è anche vero che nei casi di maggiore pretestuosità di un licenziamento intimato a un neoassunto che gli sia impossibile reintegrare per legge, il giudice potrebbe compensare la mancata reintegrazione con un indennizzo esemplare anche di importo massimo.
Ora, che senso ha differenziare vecchi e nuovi assunti con riferimento a una tutela indennitaria comunque compresa tra un minimo e un massimo determinati dal giudice? Con l’ulteriore paradosso di aumentare la tutela massima per i nuovi assunti (di ben 12 mensilità). Ma anche quel poco che rimane tra le macerie del D.lgs. n. 23 del 2015 rischia di crollare.
Il Decreto Dignità aveva seguito il Jobs Act anche nella logica dei “pochi, maledetti, detassati e subito”, al fine di evitare il ricorso al giudice, adeguando l’offerta conciliativa nel minimo (ora non inferiore a 3) e nel massimo (non superiore a 27 mensilità) fermo restando l’ancoraggio all’anzianità di servizio (una mensilità per ogni anno di servizio). Dopo la sentenza della Corte costituzionale un’offerta conciliativa commisurata alla sola anzianità di servizio (ad esempio, di 3 mensilità) non è più congrua a fronte di un rischio causa che può arrivare fino a 36 mensilità. Ferma restando la possibilità di adeguare l’offerta senza però che le parti possono giovarsi della detassazione per l’intero importo. E anche le altre differenze di disciplina tra vecchi e nuovi assunti (procedura ex art. 7, l. n. 604 del 1966 e rito Fornero applicabile solo ai vecchi assunti) non hanno ora più alcun senso, ammesso che già lo avessero.
E poi, la Corte costituzionale non ha ancora bocciato (ma presumibilmente boccerebbe se fosse sollevata questione di legittimità costituzionale e non fosse possibile una lettura costituzionalmente orientata) l’ancoraggio rigido dell’indennità risarcitoria all’anzianità di servizio in caso di licenziamento per vizio formale (art. 4, D.lgs. n. 23 del 2015: una mensilità per ogni anno di servizio) o di licenziamento intimato dalle piccole imprese (art. 9, primo comma, D.lgs. n. 23 del 2015: importo legato alla sola anzianità di servizio “dimezzato” che “non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”).
Una volta bocciato l’indecente esperimento di labour law and economics racchiuso nel D.lgs. n. 23 del 2015 e rottamato il contratto a tutele crescenti il nuovo dualismo creato nel mercato del lavoro tra vecchi e nuovi assunti agli effetti della disciplina applicabile al licenziamento, non ha più alcuna ragione d’essere. E sarà dunque inevitabile e comunque auspicabile l’intervento del legislatore che potrebbe resuscitare l’art. 18.
Vedremo se ciò comporterà l’abrogazione integrale del D.lgs. n. 23 del 2015 e il ritorno dei figliol prodighi assunti dopo il 7 marzo 2015 nella casa della madre di tutte le tutele: l’art. 18, dello Statuto dei Lavoratori. Un ritorno di alto valore simbolico per un legislatore che si propone di “attivare con immediatezza misure a tutela della dignità dei lavoratori cuore la dignità del lavoro“, considerato che alla libertà e alla dignità dei lavoratori è intitolata la casa dell’art. 18.
E, del resto, il ministro del Lavoro (Luigi Di Maio detto Gigino) condivide con il padre dello Statuto dei Lavoratori anche il nome di battesimo (Luigi Giugni detto Gino). Come dire, la dignità del lavoro da Gino a Gigino.