Il 9 gennaio 1963 – quasi 56 anni fa – segnava una tappa importante per i diritti delle donne lavoratrici. La legge n. 7 (pubblicata il successivo 30 gennaio) sanciva la nullità delle famigerate clausole di nubilato, e cioè di quelle clausole con le quali si prevedeva «la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio». Ebbene sì, oggi è difficile crederci, ma all’epoca dette clausole andavano di moda (tanto di moda che, una volta emanata la legge, non pochi furbi pensarono bene di ottenere lo stesso effetto con l’altrettanto famigerata prassi delle dimissioni firmate in bianco: ma questa è un’altra storia).
Per rendere effettiva la tutela, la legge disponeva essere «del pari nulli … i licenziamenti attuati a causa di matrimonio», aggiungendo che si presumevano tali i recessi intimati «nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa». Il divieto non era assoluto, ma i casi in cui era possibile far cessare il rapporto erano pochissimi, e coincidevano con quelli previsti dalla disciplina a tutela della lavoratrice madre: scadenza del termine del contratto, grave condotta della lavoratrice costituente giusta causa di licenziamento, cessazione dell’attività.
La Corte costituzionale ha ben spiegato che tale speciale tutela in favore delle lavoratrici trova fondamento in una pluralità di principi costituzionali, i quali giustificano misure legislative che perseguono lo scopo di sollevare le donne dal dilemma di dover sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita a una nuova famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo loro fondamentale diritto per evitare la disoccupazione (sentenze nn. 27/1969 e 200/1983). Tanto è importante quella disciplina che la stessa è stata da ultimo recepita nell’art. 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, approvato con d.lgs. n. 198/2006, che dunque la mantiene, ancor oggi, pienamente in vigore.
Senonché, qualcuno si è chiesto: ma se, oggi, per il legislatore uomo o donna davvero pari sono, perché di questa tutela non può fruir pure lo sposo? La domanda è stata posta da un lavoratore licenziato, al quale però il Tribunale e la Corte d’appello di Reggio Calabria hanno risposto negativamente. L’interessato non si è dato per vinto, forse reputando che, al Sud, i giudici siano ancora un po’ troppo tradizionalisti, ancorati a quell’idea di donna-madre-sposa, e quindi di famiglia tradizionale, oggi non più di moda: e quindi ha ricorso in Cassazione.
La Suprema Corte, però, con la sentenza 31824 del 10 dicembre scorso, ha respinto il ricorso, confermando che quella tutela si applica solo alla donna, confermando così la perdurante rilevanza del trinomio donna-madre-sposa. La Corte, invero, nel richiamare già evidenziato dalla Corte costituzionale in ordine alla finalità della disciplina, ha rilevato che «nessuna discriminazione può ravvisarsi nell’esclusione dei lavoratori di sesso maschile (fatta palese dal tenore testuale della norma in disamina) … non essendo ravvisabili rispetto ad essi le medesime esigenze di protezione di genere (prime tra tutte quelle correlate alla maternità ed al puerperio, cioè alle funzioni biologiche proprie della donna) …»
Insomma, la Cassazione conferma che per il diritto ha ancora qualche rilievo – e, precisazione importante, non è neppure superata dal diritto europeo – quella differenza tra uomo e donna, che, in relazione al ruolo familiare di quest’ultima, temevamo essere ormai del tutto relegata alle tradizioni dei nostri nonni. Perché proprio tale differenza giustifica l’esclusione degli uomini dalla tutela dei licenziamenti intimati in prossimità del matrimonio.
Tutti i problemi sono dunque risolti? Neppure per sogno! Perché le normative attuali sono ben più complesse di quelle vigenti nel 1963. Come la mettiamo, ad esempio, con le unioni civili tra persone dello stesso sesso, e con le «convivenze di fatto» introdotte dalla legge Cirinnà (l. n. 76/2016)? Le donne che hanno instaurato «convivenze di fatto» eterosessuali, formalizzate ai sensi di quella legge, possono o no invocare il divieto di licenziamento per causa di matrimonio? È vero che dette convivenze non sono parificate al matrimonio: ma il desiderio di queste donne di procreare con il proprio partner è forse meno meritevole di tutela?
E ancora, come la mettiamo con le unioni omosessuali, che la legge invece parifica espressamente al matrimonio? Se si segue l’impostazione della Corte di cassazione, dalla tutela rimangono totalmente fuori le coppie gay tra uomini, mentre invece quelle lesbiche potrebbero, addirittura, “raddoppiare”, per invocare l’applicazione dell’art. 35, d.lgs. 198/2006 a entrambe le partners. Insomma, mettetela come volete, ma alla fine ci sarà sempre qualcuno che si sentirà discriminato.