Dopo la segnalazione da parte della società di ricerca e selezione del personale e dopo aver fatto numerosi colloqui, il sig. G (di Gaberiana memoria) è riuscito finalmente a ottenere un contratto di assunzione come lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Il contratto di lavoro prevede, come capita di norma, un periodo di prova. Il sig. G viene però addetto a mansioni diverse da quelle specificate nel contratto di assunzione e, dopo qualche mese di lavoro, viene “licenziato” per mancato superamento del periodo di prova.
Il sig. G vorrebbe impugnare la decisione dell’Azienda, lamentandone la illegittimità (il patto di prova si riferiva a mansioni diverse da quelle espletate in concreto) e chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro a tempo indeterminato. Avrebbe ragione? Solo in parte, secondo la recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 31159 del 3/12/2018.
Per meglio comprendere la decisione della Corte Suprema, facciamo qualche passo indietro, per inquadrare (sia pure per sommi capi) il contesto di riferimento. L’assunzione in prova è regolata anzitutto dall’art. 2096 del codice civile, il quale prevede in particolare che il periodo di prova deve risultare da atto scritto; che il datore di lavoro e il dipendente “sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova“; che “durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità“; e che “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro“. I Contratti collettivi nazionali di lavoro provvedono poi a stabilire la durata massima del periodo di prova, che può essere differente a seconda del livello di inquadramento (ovvio essendo che un conto è la prova per un operaio e tutt’altro conto è la prova per un Quadro direttivo).
Nel corso del periodo di prova il datore di lavoro può recedere dal rapporto di lavoro limitandosi semplicemente a comunicare al dipendente che la prova ha avuto esito negativo (salvo nell’ipotesi in cui si tratti di un lavoratore disabile assunto come “avviato obbligatorio”: in tal caso, secondo la Corte di Cassazione, il recesso aziendale va motivato con l’indicazione delle ragioni serie e obiettive che non hanno consentito il superamento del periodo di prova e ciò indipendentemente da qualsiasi valutazione sulla minorazione dell’invalido). Il lavoratore può comunque impugnare il recesso. Al riguardo, la Corte Suprema ha precisato che durante il periodo di prova “sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto“.
Ne consegue che il datore di lavoro non può recedere dal rapporto affermando un “esito negativo” della prova, quando le modalità di svolgimento della prova stessa non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del dipendente in relazione alle mansioni assegnate. E questo può accadere, come segnala la Corte di Cassazione, ad esempio quando la durata della prova sia stata esigua, oppure quando il lavoratore sia stato assegnato a mansioni diverse da quelle per le quali era stata stabilita la prova, ovvero ancora quando il recesso sia stato intimato per finalità discriminatorie o ritorsive. In tali casi, precisa ancora la giurisprudenza, spetta però al lavoratore dimostrare in giudizio perché il licenziamento sarebbe illegittimo, il che non è sempre agevole (si pensi alle difficoltà legate alla dimostrazione di un intento discriminatorio).
La Corte Suprema ha rilevato inoltre che il recesso del datore di lavoro per mancato superamento della prova è illegittimo anche quando il patto di prova non è stato stipulato validamente (come nel caso in cui il periodo di prova non sia stato fissato per iscritto, ovvero nel caso in cui sia stata indicata nel contratto di lavoro una durata del periodo di prova maggiore di quella prevista dal Ccnl o quando il patto non specifichi con chiarezza quali sarebbero le mansioni oggetto dell’esperimento). In tal caso, il recesso datoriale è illegittimo perché è intimato sulla base di un patto di prova a sua volta illegittimo.
Tanto chiarito, possiamo ora capire più facilmente quanto osservato dalla Corte Suprema con la sentenza n. 31159/2018. Con questa sentenza la Corte di Cassazione ha distinto il caso in cui il recesso datoriale venga intimato sulla base un patto di prova non stipulato validamente (la cosiddetta “nullità genetica del patto“), dal caso in cui il recesso datoriale, intimato a fronte di un patto di prova corretto, sia affetto da “vizio funzionale”, cioè da un vizio verificatosi durante il periodo di prova (come avviene allorché il dipendente sia stato assegnato a mansioni diverse da quelle oggetto dell’esperimento). In entrambi i casi il recesso è illegittimo, ma le conseguenze – secondo la Corte Suprema – sono diverse. In caso di “nullità genetica del patto“, “c’è la “conversione“ (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario” e ricorrendone i requisiti il lavoratore potrà ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Nel caso invece di “vizio funzionale“, il lavoratore avrà diritto “unicamente alla prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato, oppure al risarcimento del danno“.
Ecco perché il sig. G del nostro esempio avrebbe ragione solo in parte: avrebbe ragione nel chiedere l’accertamento dell’illegittimità del recesso comunicatogli dal datore di lavoro, ma avrebbe torto nel pretendere la reintegrazione nel posto di lavoro (potendo solo aspirare a lavorare fino al termine dell’eventuale residuo periodo di prova o al risarcimento dei danni patiti per effetto del recesso aziendale).