Il decreto-meraviglia – destinato a cambiare la storia del Paese, a restituire il diritto dei lavoratori ad andare in pensione, a cancellare la povertà e far ripartire verso un nuovo miracolo economico l’economia mediante un imponente rilancio dei consumi interni – per ora “segna il passo sul posto” (come ordinavano gli antichi professori di educazione fisica dopo aver fatto marciare per qualche minuto le scolaresche). I retroscenisti dei grandi quotidiani spiegano quali sono i punti controversi e i contrasti tra le due anime della maggioranza, ognuna delle quali è interessata a far svolazzare la propria bandiera anche a scapito di quella dell’alleato.
Noi siamo convinti che i problemi siano più seri e che – come al solito – riguardino la noiosa questione delle coperture, perché è giunto il momento della verità. Si è fatto di tutto per rinviare il confronto tra le norme e gli stanziamenti. Ma alla fine si arriva sempre lì. E si scopre che, se si riducono le disponibilità, occorre intervenire, al ribasso, anche sulle platee interessate e sulle prestazioni promesse. Intanto, più passa il tempo e più diventa complicato utilizzare quota 100 e il reddito di cittadinanza ai fini delle elezioni europee.
Su quota 100 è intervenuto di nuovo – suscitando le ire del ministro Salvini – il presidente Boeri, il quale ha ribadito che le risorse previste non saranno sufficienti. Il problema più complesso resta quello del reddito (e della pensione) di cittadinanza. Proprio ieri nella sua rubrica sul Corriere della Sera e su La 7, all’interno di un’inchiesta sull’abuso delle risorse destinate alla lotta alla povertà (che difficilmente finiscono in tasca dei poveri veri), Milena Gabanelli ha messo in evidenza la velleità del progetto di politica attiva (collegato all’erogazione del reddito), per quanto riguarda sia i tempi dell’entrata in vigore (il prossimo aprile), sia le strumentazioni previste, soprattutto in tema di condizionalità a cui sarà sottoposta la prestazione.
Premesso che si chiederà all’Inps di esaminare e riconoscere a tambur battente il diritto all’assegno, è stupefacente la disinvoltura con cui si prevedono 4mila assunzioni (come e da parte di chi?) per i navigator, l’organizzazione di iniziative di formazione e di riconversione professionale e la possibilità di offrire occasioni di lavoro – per di più coerenti con il profilo del soggetto interessato – in un arco temporale che verrà forse ridotto rispetto ai due anni inizialmente previsti: una disinvoltura irresponsabile, a prova del fatto che i Centri per l’impiego rilasceranno, a proposito del posto di lavoro, una cambiale a babbo morto e che gli interessati non se ne lamenteranno, perché nel frattempo il reddito continuerà a essere erogato. Basterebbe guardarsi attorno per accorgersi di come sia difficile attuare politiche attive.
Nel suo recente saggio “Le riforme dimezzate”, Marco Leonardi che ha fatto parte del brain trust di palazzo Chigi nella passata legislatura, descrive le ragioni per le quali l’assegno di ricollocazione non è decollato, nonostante che fosse divenuto strutturale: lo scarso impegno delle Agenzie per il lavoro a investire nel settore; la mancanza di informazione; la propensione dei lavoratori adesaurire fino in fondo l’utilizzo della Cig o della Naspi, piuttosto che a mettersi in gioco nella ricerca assistita di una occupazione. Alcuni dati sono significativi. L’Aiso, l’associazione delle agenzie di outplacement, ha fornito un dato sul numero delle ricollocazioni: 6.500 nel 2014. Immaginiamo che le cose siano migliorate da allora, ma non certamente fino a potersi confrontare con i numeri che vengono evocati dal reddito di cittadinanza.
Leonardi cita un caso paradigmatico. L’Anpal all’inizio del 2018 aveva concordato con l’amministrazione straordinaria di Alitalia un progetto di ricollocazione per 250 lavoratori in Cig a zero ore, avvalendosi degli incentivi previsti. Poi a maggio, quando è iniziata a circolare l’ipotesi di nazionalizzazione della compagnia solo 18 cassintegrati hanno chiesto l’assegno di ricollocazione. Resta poi aperto il problema del rapporto tra lo Stato e le Regioni, titolari delle politiche attive e -per quanto riguarda quelle che hanno raggiunto i migliori risultati – in cammino verso una maggiore autonomia.
Poi va sempre tenuto presente il programma Garanzia Giovani, cofinanziato dall’Ue, rivolto in particolare a offrire ai Neet un’esperienza di lavoro. Al di là dei risultati, è bene porre l’attenzione sul momento della “presa in carico” da parte – in prevalenza – dei Centri per l’impiego (oltreché delle Agenzie per il lavoro), perché è questo il primo passaggio che quelle stesse strutture dovranno affrontare anche per i titolari del reddito, chiamati a sottoscrivere i patti richiesti. Nell’ultimo rapporto del 2018 viene certificato che i giovani registrati al Programma nel periodo maggio 2014 – novembre 2018 sono circa un milione e 416 mila, al netto di tutte le cancellazioni di ufficio. Rispetto ai registrati, i giovani “presi in carico” da parte dei servizi competenti sono pari al 77,7%. L’80,5% di loro è composta da giovani con una maggiore difficoltà a inserirsi nel mercato del lavoro. Rispetto a chi ha completato l’intervento di politica attiva, sono oltre 303 mila i giovani occupati al 30 novembre 2018, cioè il 52,4%. Si tratta in gran parte di tirocini. Ma il problema non è questo. Ci basti segnalare come la ricollocazione sia un processo complesso, che richiede esperienza e capacità d’iniziativa. E soprattutto i tempi necessari.