La ribollita è un piatto che deriva dalla tipica zuppa di pane raffermo e verdure che si prepara tradizionalmente in alcune zone della Toscana. In origine era un piatto povero che serviva a utilizzare il pane dei giorni precedenti insieme ad alcune verdure che i contadini coltivavano nell’orto. La Ribollita ha seguito il percorso dei cibi come la polenta, il baccalà, la trippa, la pajata e quant’altro. Già consueti – quando ve ne era la disponibilità – sulla tavola delle famiglie povere si sono trasformati in leccornie per quelle benestanti. Ma, per rimanere nell’ambito europeo (e trascurare pertanto il cous cous e altri cibi simili), il piatto più famoso, nell’elenco di questa tipologia culinaria, è senz’alcun dubbio la paella. La sua ricetta consiste nell’affondare in un mare di riso allo zafferano i resti – carne, pesce, pollo, verdure – della cena della sera precedente.



Per quale ragione, si chiederanno gli eventuali lettori di questo articolo, ci siamo così diffusi a parlare di cibo come premessa per trarre alcune prime considerazioni sulla disciplina del reddito di cittadinanza (RdC)? Perché l’immagine della paella – questa volta caratterizzata da norme e istituti giuridici – ci è venuta subito in mente alla lettura del Titolo I della bozza di decreto legge che dovrebbe dare l’avvio alla riforma delle pensioni e al RdC. In quell’articolato si trova traccia, più o meno, di tutti gli istituti che hanno fatto la loro comparsa sul mercato del lavoro nell’ultimo decennio, ora risistemati in un puzzle sconnesso che pretende di tenere insieme – in un labirinto degli specchi – la lotta alla povertà, le buone pratiche di inclusione sociale e le politiche attive del lavoro.



Basta leggere il comma 1 dell’articolo 1 per farsi un’idea di quanto sia ambizioso il progetto di una “misura unica di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale, a garanzia del diritto al lavoro, della libera scelta del lavoro nonché a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura…”. Aveva proprio ragione mia nonna Virginia, bracciante socialista, quando con tono messianico mi preconizzava: “Giuliano, tu lo vedrai il socialismo!”. Ci ho impiegato quasi ottant’anni, ma avverto di esservi a un passo, se mai il decreto diventerà operativo: ognuno avrà secondo i suoi bisogni. La normativa è tanto ampia e complessa che il lavoratore dovrà avvalersi del supporto di un commercialista o rivolgersi a un Caf o da un Patronato (riemerge persino una sorta di social card); questi enti saranno tenuti anche a seguire meticolosamente e puntualmente le variazioni della condizione economico-sociale della famiglia presa in carico, ai fini della continuità, della quantità dell’erogazione monetaria.



Ma è sulla macchina amministrativa che vengono imposti compiti irrealistici. I tempi, innanzitutto, sono tanto stretti da sembrare inverosimili. L’Inps sarà tenuto a verificare entro cinque giorni lavorativi la sussistenza dei requisiti di coloro che hanno presentato la domanda. Entro trenta giorni dal riconoscimento del RdC sono chiamati a scendere in campo i Centri per l’impiego, i quali dovranno far sottoscrivere all’assistito e agli altri componenti della famiglia il Patto per il lavoro (col quale il soggetto si impegna ad accettare i posti che gli vengono offerti, in rapporto crescente della distanza da casa, e preliminarmente a sottoporsi a tutte le attività di formazione e di apprendimento) nonché il Patto per l’inclusione sociale, nel quale saranno indicati i compiti attinenti ad eventuali lavori socialmente utili.

Anche l’assegno di ricollocazione viene riciclato nel Circo Barnum del RdC. C’è poi una certa automaticità nel proporre posti di lavoro alle diverse scadenze, fino a pretendere che la terza e ultima offerta abbia come riferimento l’intero Paese. Bisognerebbe – per dare un esempio di effettivo cambiamento – convincere dapprima gli insegnanti, stabilizzati dalla legge sulla “buona scuola” nell’amministrazione pubblica, a prendere possesso di quelle cattedre loro assegnate, lontano da casa, finora abbandonate a nuovi supplenti, grazie a tutti i possibili sotterfugi consentiti alla burocrazie ministeriali. Si conta nel progetto su banche dati insufficienti o persino inesistenti, su reti informative spesso scollegate; si presume che, nel mercato del lavoro, si trovi con la bacchetta magica il personale, a partire dai tutor, in grado di seguire e guidare il percorso formativo di ciascun beneficiario (altro che scuola paripatetica!).

Ma l’aspetto più singolare riguarda il finanziamento. A ogni anno si fa il punto delle risorse erogate ai beneficiari; se risultano eccedenti si tagliano in proporzione le prestazioni. A parte il lavoraccio dal punto di vista amministrativo, sarebbe come – per restare nella metafora della paella – togliere dai piatti messi in tavola una porzione di riso.