Per l’opinione pubblica, il caso Fiat – esploso nel 2010 a seguito della firma degli accordi di Pomigliano – fu il duello rusticano tra l’allora segretario generale della Fiom Maurizio Landini (ora al vertice della Cgil) e Sergio Marchionne, uomo capace di rendere per la prima volta globale l’industria dell’auto italiana.
In realtà, gli addetti ai lavori sanno bene che quel caso fu una vera e propria patologia per il sistema delle relazioni industriali italiane, perché un anno dopo non solo Fiat era uscita dall’Associazione dell’Industria di cui era tra i fondatori, ma si era a quel punto in presenza di un contratto che si poneva in modo dirompente al di fuori del perimetro confindustriale su cui fu chiamata a riconoscerne la legittimità persino la Corte Costituzionale, tanto che tutta una serie di problemi che abbiamo davanti oggi – legge sulla rappresentanza, salario minimo, ruolo contratto nazionale, ecc. -sono figli di quella frattura (e, in particolare, della sentenza della Consulta del luglio 2013).
Proprio in queste ore, otto anni dopo, si registra una voce che ha del clamoroso: Fca potrebbe rientrare in Confindustria. Al di là del fatto che, dinnanzi a tanta complessità, nessuno è in grado di prevedere il futuro e che le migliori intenzioni possono scivolare su una buccia di banana, proviamo a immaginare che non si tratti soltanto di una voce e a ragionare su questa possibilità.
Anzitutto, dopo la morte di Sergio Marchionne, Fca è sempre meno italiana e sempre più americana; quindi, con criticità in proporzione crescenti a interloquire col sistema Italia. Rientrare in Confindustria significherebbe, così, rafforzarsi in questo senso anche rivitalizzando un’Associazione che potrebbe ritrovare peso se non si vuole lasciare la grande impresa nelle fauci di chi – la “nuova politica” – la considera “predatrice”.
È chiaro che, se mai questo scenario dovesse avverarsi, Fca non si troverebbe a subire il Ccnl metalmeccanico industria, ma vedrebbe il suo accordo aziendale – che a tutti gli effetti è un’intesa di primo livello – elevarsi a “contratto collettivo nazionale di lavoro per gli addetti all’industria dell’auto”, cosa che tra l’altro poteva succedere al tempo dello strappo: era il finale che avrebbe messo d’accordo tutti. In una situazione di questo genere, la stessa Fiom potrebbe sentirsi di nuovo tra le parti in causa e lo stesso contratto potrebbe rivelarsi interessante anche per altre aziende.
Quel che resta di italiano in Fca, oltretutto, potrebbe ritrovarsi più garantito nei confronti della casa madre: i Ccnl, di norma, disegnano proprio quel robusto perimetro regolatorio laddove – in caso di contenzioso – l’azienda non è sola ma ha al suo fianco l’Associazione. È vero che le grandi imprese hanno strumenti per tutelarsi ma la forza di un’Associazione è diversa: non si spiegherebbe altrimenti – in un’epoca come questa – perché le imprese hanno ancora interesse ad associarsi.
Già Giorgio Squinzi, che con Marchionne aveva buoni uffici, aveva provato a riportare Fca in Confindustria. Ora, però, sono oggettivamente cambiate molte cose. Vedremo cosa succederà, a ogni modo si tratta di una suggestione interessante. Non sempre, ma – come direbbe Stephen King – a volte ritornano.
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