È arrivata la settimana della Cgil, del suo congresso. Qualcuno fa notare che, in altri tempi, l’attenzione sull’evento – che si ripete ogni 4 anni – era diversa; oggi l’assise della maggior confederazione del lavoro sta passando inosservata dinanzi all’opinione pubblica. Certamente non sono tempi questi di grande appeal per le organizzazioni sindacali, la rappresentanza del lavoro vive un momento critico. Lo supererà? Forse può essere utile ribaltare la domanda: può un Paese industrializzato fare a meno del sindacato? È chiaro che esiste una sola risposta giusta, ma è altrettanto evidente che non possiamo prevedere che tipo di sindacato avremo tra qualche anno.
Tutte le democrazie avanzate vivono un momento di sensibile cambiamento politico e sociale: la crisi economica, la rivoluzione digitale, le trasformazioni del lavoro, il crollo delle vecchie élite, il (per certi versi) nuovo rapporto tra le leadership politiche e l’elettorato… si pensi a ciò che sta avvenendo negli Usa con Trump, in GB con la Brexit e in Francia con i gilets jaunes. Il vecchio ordine mondiale non esiste più, sconvolto dagli esiti della seconda globalizzazione e dall’emergere di nuove potenze (Cina e India, per esempio).
In Occidente, a parte le nuove leadership politiche, le vecchie élite sono in crisi; anche il sindacato, che ha più che mai bisogno oggi di ritrovare unità per riacquistare protagonismo. Per quanto riguarda la Cgil, abbiamo già visto in precedenza che la doppia candidatura di Maurizio Landini e Vincenzo Colla – fatto assolutamente inedito – non è riducibile a uno scontro tra apparati o tra due sensibilità politiche, una più vicina a quel che resta del Pd, l’altra più in orbita populista e a cinque stelle. Sono, infatti, in molti a pensare che la divisione sarebbe tra colliani fieramente antigovernativi e landiniani pacatamente filogovernativi.
Chi scrive non ritiene questa chiave di lettura decisiva: Colla, pur esternando il suo desiderio di vedere riaffermarsi una forza politica di sinistra, non è allineato a un Pd di cui per altro non è chiara la pelle (e nemmeno lo sarà nel futuro prossimo); Landini non può essere ritenuto in linea col Governo gialloverde.
Sia Landini che Colla affermano, con linguaggi diversi, di voler riportare il sindacato a essere più protagonista nelle scelte del decisore e di voler ricomporre le fratture del mondo del lavoro. L’obiettivo di entrambi è una nuova unità, anche, sindacale. Da questo punto di vista, vi è peraltro un solo documento programmatico. E, allora, cos’ha creato questa spaccatura dentro la Cgil? Certamente, la segretaria generale uscente ci ha messo del suo, non è stata infatti in grado di portare il gruppo dirigente unito alla fine del suo mandato. Tuttavia, al di là del fatto che vi sia chi è più vicino all’uno piuttosto che all’altro, c’è sicuramente chi legittimamente si è posto una banale questione: chi è più adatto a interpretare dal punto di vista dell’azione sindacale l’obiettivo che l’organizzazione deve raggiungere ovvero il ritrovato protagonismo?
Landini e Colla sono due bravi sindacalisti, ma sono diversi. Quindi, proprio nella loro differenza, c’è una ragione sufficiente per propendere per l’uno piuttosto che per l’altro. E, come ho già scritto, il problema vero è che sono contrapposti, perché in realtà sono molto complementari.
Oggi vi è un enorme bisogno di capire la trasformazione e di provare a governarla. Ed è molto difficile tenere insieme le persone, anche per via della forte eterogeneità del mercato e della frammentazione del lavoro. Bisogna camminare senza paura verso il futuro e, per fare questo, l’unità non è solo un bisogno, ma è determinante per riaffermare l’equilibrio della democrazia rappresentativa che l’irruzione dei movimenti populisti sta minando.
La politica che avanza è una politica che, più o meno consapevolmente, fa sua l’idea di Margareth Thatcher che nel 1987 affermava “la società non esiste, esistono gli individui”. Fu lei a iniziare una forte reazione contro i corpi intermedi, cosa che in Italia è passata prima da Berlusconi e poi da Renzi. Oggi questa disintermediazione conosce il suo punto apicale; ma mai come ora il decisore politico vuole tutta la scena per sé e si prende uno spazio che non gli appartiene: pensiamo, per esempio, al Parlamento costretto ad approvare la manovra economica senza discuterla – non c’era tempo, sarebbe scattata la procedura d’infrazione da parte dell’Ue – o al ministro degli Interni che convoca al Viminale le rappresentanze datoriali. Siamo ai confini della realtà, al Truman show della politica.
Il sindacato non può non sostenere con decisione che questa politica è sbagliata, ne va della sua stessa natura: esso è, infatti, soggetto costitutivo della democrazia rappresentativa. O è in grado di fare questa operazione culturale o sarà destinato all’irrilevanza.
Qui sta la diversità tra Landini e Colla: chi è più idoneo a costruire, innanzitutto, un ponte interno al sindacato (non solo alla Cgil) che gli permetta di compiere questa operazione culturale? Chi riduce il problema allo stesso documento congressuale – attaccando la candidatura di Colla perché questi avrebbe condiviso il documento – sembra insinuare che non contino nulla le qualità personali dei due candidati; mentre, invece, le organizzazioni cambiano a seconda dei loro leader. È questa una verità inconfutabile, al di là del valore del collettivo. E non si può sostenere che la Cgil guidata da Landini sia uguale alla Cgil guidata da Colla. Ciò significa cedere alla teoria dell’indifferenza.
Poco più di due settimane fa, nella relazione conclusiva del congresso dello Spi-Cgil che lo ha riconfermato segretario generale, Ivan Pedretti ricordava il ventesimo anniversario di quel grande cantastorie che è stato Fabrizio De André, che con la sua musica e le sue parole ha raccontato la vita delle persone, della comunità e, anche, degli ultimi. Fabrizio amava ripetere che “gli uomini si dividono in due categorie: quelli che pensano e quelli che lasciano che siano gli altri a pensare”. A differenza dei partiti che non esistono più – vi sono i leader e i loro replicanti – oggi dobbiamo tutti sperare che quel dibattito che nel sindacato è ancora vivo, possa portare più persone a convincersi che bisogna lavorare per un miglior equilibrio tra politica e società. Ne va del futuro della democrazia. Cgil, Cisl e Uil contano ancora 11 milioni di iscritti. Nella loro fragilità – come opportunamente richiama Dario Di Vico – non diamo per scontata la loro irrilevanza.
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