In prossimità della Festa del lavoro, l’economista Marco Leonardi ha analizzato un mondo del lavoro che non è più lo stesso, alla luce delle novità – che riguardano le policy aziendali e gli accordi collettivi – contenute nella Legge di bilancio 2019, che si aggiungono, modificandone in parte la disciplina, alle disposizioni della legge 81/2017 che ha introdotto, nel nostro ordinamento, lo smart working.
Modalità di esecuzione della prestazione di lavoro agile in cui datore di lavoro e lavoratore possono accordarsi per organizzare la prestazione lavorativa per fasi, cicli e obiettivi, «senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro» e tramite l’ausilio di strumenti tecnologici, con il solo limite di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale; non, dunque, una nuova tipologia contrattuale, ma la capacità di intercettare e definire compiutamente quanto si era già diffuso nella contrattazione delle grandi aziende, realizzando una maggiore efficienza nella concertazione tra le parti sociali.
La parola chiave che contraddistingue lo smart working è la mobilità intesa come possibilità di svolgere la propria prestazione lavorativa da remoto, virtualmente, in ogni dove; siano gli stessi locali aziendali o gli huddle room, ambienti appositamente pensati per gruppi di lavoro – da tre a cinque persone – e per team virtuali che si incontrano e collaborano insieme per brevi periodi, o in spazi dedicati al coworking o, comunque, con modalità che realizzano flessibilità e adattamento delle risorse umane in funzione degli strumenti che si hanno a disposizione. Si comprende, così, la differenza con il telelavoro, in cui il dipendente ha una postazione fissa, dislocata in un luogo diverso dalla sede aziendale, tipicamente rappresentata dalla casa del lavoratore.
Le parti devono sottoscrivere un documento scritto ad hoc, distinto dal contratto di lavoro, in cui vanno a regolare le modalità di esecuzione della prestazione; l’esercizio del potere disciplinare e di controllo esercitato dal datore di lavoro; i tempi di riposo e il famigerato diritto alla disconnessione del lavoratore dagli strumenti di lavoro.
L’accordo, così come concepito ab origine, è proteso a garantire un incremento della competitività e una garanzia di miglior conciliazione dei ritmi di vita/lavoro, andando ad agire sia nell’interesse produttivo del datore che a vantaggio di un’autonomia gestionale del lavoro.
Non può negarsi quanto sia complicato assicurare un equilibrio efficace; con il rischio, di non poco rilievo, di realizzare, più che una conciliazione, una commistione tra i tempi di vita e lavoro esponendo, così, lo smart worker a una perenne reperibilità, a conferma del fatto che non può essere il semplice dettato normativo a garantire un buon bilanciamento.
A dire il vero, come spiega lo stesso Leonardi, sarebbero proprio gli interventi per legge quelli da evitare, in quanto l’economia italiana vive di contrattazione e non bisogna cedere al “canto delle sirene” rappresentato dalla riduzione dell’orario per decreto o, ancora, dell’introduzione del salario minimo. Considerata la stagnazione in cui versano i salari in Italia, da circa vent’anni, va rigorosamente evitato di cedere a tali lusinghe; piuttosto sarebbe proficuo incentivare lo smart working alla pari degli incentivi delle macchine Industry 4.0.
Nessuna riforma del lavoro, si sa, genera nuova occupazione. Il clima ideale in cui potranno nascere i nuovi lavori è rappresentato da una “organizzazione concertata” aziendale che respiri aria di innovazione, in una rinnovata tendenza a percepire formazione e welfare come antidoti dell’avanzata tecnologica e del conseguente timore della disoccupazione che questa potrebbe generare.
La scelta operata nella Legge di bilancio 2019 è di segno, però, compiutamente, contrario a quanto appena prospettato. Si è inteso offrire, per mezzo di essa, una prelazione, quanto a lavoro agile, a due categorie di lavoratori: lavoratrici che hanno concluso il congedo di maternità da meno di tre anni e genitori di figli in condizione di disabilità grave.
Se nella politica aziendale, lo smart working riguarda solo determinate figure professionali, nulla quaestio poiché non vi sarà bisogno di stabilire delle priorità; ma se, invece, il lavoro agile fosse riservato a un numero esiguo di operatori, il datore di lavoro dovrebbe tener conto delle priorità introdotte dalla Legge di bilancio. Stessa cosa potrà dirsi per gli accordi collettivi, che dovranno prevedere criteri specifici di definizione delle graduatorie.
Non siamo qui a contestare la scelta di aver voluto offrire una precedenza a due categorie, sicuramente, meritevoli di tutela; ma, segnaliamo, per lo più, la mancata scelta di voler estendere Industry 4.0 e formazione 4.0 al lavoro agile, già di per se stessi, notevolmente ridimensionati dal Governo.
Sarebbe stato più opportuno coinvolgere ogni lavoratore e amplificare i controlli a distanza, calando la scelta di ogni singolo lavoratore nel contesto aziendale, anche tramite una politica di detassazione del lavoro agile, andando ad ampliare il numero di lavoratori che preferiscono essere valutati sulla produttività e sul risultato e non limitarlo alle sole categorie che, hanno maggiori difficoltà a coniugare le esigenze professionali con quelle familiari (circolare 2/2019 dell’ufficio studi dei Consulenti del lavoro).
Lo smart working è il trend del futuro, sia a livello nazionale che mondiale. Andrebbero ricercate nuove soluzioni per un lavoro che cambia, promozione della mobilità, flessibilità e contrattazione agile per tutti i lavoratori eppure, al tempo stesso, si prevedono vincoli ingombranti con l’effetto di creare una “corsia preferenziale” per talune categorie che facciano percepire lo smart working, citando Leonardi, come una gentile concessione dell’azienda più che la modalità di lavoro del futuro, per tutti i lavoratori.