Quando venne presentato a Cannes, dove vinse il premio per l’interpretazione maschile, Le buone stelle venne accolto con un pizzico di freddezza perché non molto diverso dai precedenti film del regista, il giapponese Hirokazu Kore’eda. È vero: il regista negli ultimi suoi film ha condotto una lunga riflessione sulla famiglia, sulle sue nuove dinamiche, sulle sfumature umaniste legate al dissolvimento dell’istituzione familiare, arrivando a vincere la Palma d’oro con un film come Un affare di famiglia che raccontava di famiglie elettive, piccoli truffatori dal cuore d’oro, di un “rapimento” infantile che è di fatto un atto d’amore; e questo suo nuovo film racconta in pratica cose molto simili.



Il film infatti racconta di Sang-hyeon (Song Kang-ho), un broker di bambini, ossia contratta la vendita di neonati abbandonati a famiglie che possono prendersene cura e amarli. Un giorno fanno un viaggio per portare un piccolo alla sua nuova famiglia, accompagnati dalla madre del bambino, incerta se abbandonarlo o riprenderselo: come ogni racconto di viaggio incontreranno persone e vivranno piccole avventure, ma sulle loro tracce ci sono anche un paio di poliziotte.



Kore’eda scrive un film ambientato e girato in Corea del Sud (dopo la trasferta francese del ’19, Le verità) che è certamente una rilettura dei temi su cui ragiona da qualche anno in qua, ma che pure si adatta a uno spirito diverso, come se – e fece lo stesso nel film con Juliette Binoche e Catherine Deneuve – volesse adattare quei temi a un modo cinematografico diverso, in questo caso più avventuroso, più articolato nella drammaturgia.

Il punto di partenza non dichiarato sembra il romanzo The Three Godfathers da cui tanto John Ford quanto Satoshi Kon trassero film molto belli, quindi uno spunto che ha messo insieme culture cinematografiche diverse che è ciò che cerca di fare Le buone stelle usando un tema che lega Giappone e Corea come quello della marginalità sociale ed economica e del suo impatto sul concetto di famiglia (Un affare di famiglia precede di un anno Parasite diretto dal coreano Bong Joon-ho e sono film quasi fratelli) per portare la tenerezza e discrezione del suo tocco dentro una cinematografia spesso cinica come quella della Corea del Sud: dalla sua, il regista ha la delicatezza di uno sguardo che riesce a esaltare le complessità del racconto e la mette al servizio di un impianto narrativo che non nega la violenza, non edulcora il mondo criminale in cui la storia si svolge, anzi usa proprio le poliziotte per arricchire i toni.



Il risultato è al tempo stesso affine – molto, per qualcuno troppo – al passato eppure diverso, variato, riscritto nel nome di un cinema che ama i suoi personaggi, che ha bisogno di voler bene e di farsi amare da chi guarda, arrivando così all’inserimento di piccoli tocchi melodrammatici di sapore almodovariano. Ma al netto dello sterile gioco delle somiglianze, e fatta salva la notazione che molti dei più grandi registi della storia hanno realizzato “sempre lo stesso film”, Le buone stelle è un’opera sincera, appagante per chi cerca la profondità dei sentimenti umani, personaggi complessi e adorabili, per chi vuole un cinema che riconcili anche con le persone oltre che con l’arte.

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