Lo scrittore scozzese dell’età vittoriana Robert Louis Stevenson, famoso soprattutto come autore del romanzo breve Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde edito nel 1886, mai avrebbe immaginato – al pari degli altri autori delle figure fondanti il genere horror gotico – che quel suo racconto, in parte frutto di sue autonome fantasie infantili e in parte originato dall’impatto delle teorie darwiniane sulla morale della società vittoriana, avrebbe trovato nel tempo così tanta fortuna. Tanto da diventare uno dei testi più utilizzati, nel corso di tutto il Novecento, dal nuovo mezzo espressivo inventato dai fratelli Lumiere: il cinematografo.
Anticipatore per geniale intuizione delle teorie freudiane sull’inconscio, come spesso accade all’arte lettera, il testo di Stevenson affronta il tema dello sdoppiamento della personalità, anche se con un intreccio giocato soprattutto sulle logiche del mistero, dell’irreale e dell’orrore piuttosto che sulla pura psicologia dei personaggi, servendosi pertanto di tutti gli elementi fondanti del genere gotico, in primis la sempiterna lotta dicotomica tra il bene e il male. In quanto testo carico di archetipi e stereotipi del genere suddetto, con tutto il crogiuolo dei possibili significati e referenti che questi sottendono, il romanzo di Stevenson ha conosciuto svariate riproposizioni, in forme diverse, nei diversi strati della cultura letterario/visiva occidentale, sia alta che popolare. E in una di queste riedizioni, il Jekyll and Hyde appare in una produzione mainstream (Paramount Pictures) della variopinta Hollywood degli anni Sessanta, segnatamente nel film comico-commedia di Jerry Lewis Le Folli Notti del Dottor Jerryll (The Nutty Professor), di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario dell’uscita.
Lewis, autore geniale ma a tratti discontinuo, con questo film si supera. Costruisce, in collaborazione con lo sceneggiatore Bill Richmond, un intelligente intreccio dove il doppio personaggio di Stevenson prende le sembianze di un gracile professore che trova il modo di trasfigurarsi in un aitante playboy, per tramite dell’immancabile pozione magica.
Il film si ambienta in un campus universitario, dove lo scimmiesco professor Julius Kelp (Jerry Lewis), docente di chimica, per conquistare una studentessa che lo affascina (Stella Stevens) e contrastare gli energumeni che lo dileggiano, elabora un portentoso beverone che lo trasforma – temporaneamente – nell’affascinante cantante di night club Buddy Love (ancora Lewis). L’esperienza, oltre a permettere al film di raggiungere tratti di geniale comicità, aiuterà il prof. Kelp a comprendere qualcosa circa se stesso e circa le importanti priorità della vita.
Se nel romanzo il dottor Jekyll, personaggio che simboleggia il bene, è di conseguenza anche grazioso fisicamente mentre il sig. Hyde è il male e anche la bruttezza fatta persona, ne Le Folli Notti del Dottor Jerryll Jerry Lewis – con felice intuizione – ribalta questo scenario e in parte anche i significati a esso collegati. Infatti, nel film è il buono ed intelligente prof. Kelp a essere sgraziato fisicamente, mentre il suo doppio, il macho fascinoso Buddy Love, è arrogante, protervo e volgare. Tale ribaltamento di senso è anche una diretta conseguenza degli stereotipi del genere comico al cinema (da Chaplin e Keaton in poi), ma in primis si fa portatore di una critica moraleggiante al mito americano della bellezza e del corpo.
Entrate nella hall of fame del cinema lewisiano alcune sequenze del film, come la prima trasformazione di Kelp nel figo Buddy, e quella della preparazione dello “scaldino per orso polare dell’Alaska”, cocktail fantasioso composto da varie dosi di tutti i superalcolici esistenti in commercio. Il barman che lo prepara su indicazioni di Buddy, dopo avergli chiesto se lo debba bere o utilizzarlo per le frizioni, assaggiatolo cade a terra tramortito, mentre Buddy Love ne tracanna un bicchierone senza fare una piega.
Di rilievo anche le musiche del film. Diversi ottimi ballabili di taglio jazzistico fanno da scenario alla sequenza finale della serata danzante di fine corso in palestra, mentre Lewis nei panni di Buddy Love canta più volte il classico That Old Black Magic, interpretato in quegli anni anche da Frank Sinatra.
Alla luce di quanto detto sul ribaltamento di senso rispetto al romanzo, rimane allora fondamentale per il film la scena finale (o quasi), nella quale Buddy Love, mentre canta sul palco della palestra rivolto a tutti gli studenti e professori del campus, sotto i loro occhi stupiti si ri-trasforma gradualmente in Kelp. Costretto a svelare il suo segreto, Kelp si scusa con tutti e, con un passaggio dai tratti melò sorprendente e inatteso per il cinema di Lewis, dichiara di aver appreso una importante lezione: che per vivere bene bisogna accettare se stessi per quel che si è, volendosi bene.
Infine, è stato ipotizzato da più fonti che Jerry Lewis, per la caratterizzazione del personaggio di Buddy Love, si sia ispirato al look del suo ex partner Dean Martin, imitazione che sarebbe stata volutamente costruita da Lewis per dileggiare Martin, a pochi anni di distanza dalla loro dolorosa separazione artistica. Circostanza però sempre categoricamente smentita dal regista e attorte di Newark, sempre dichiaratosi – e in verità gli crediamo – amico di Martin, anche durante gli anni della lontananza. Se una somiglianza può essere comunque riscontrata, essa va di certo nella direzione di un affettuoso omaggio piuttosto che di una presa in giro. Perché Martin e Lewis, fin dall’origine della loro conoscenza risalente al lontano 1946, sono stati veramente amici fraterni, e lo sono stati per tutta la vita.
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