Al valico Allenby un camionista giordano uccide tre israeliani, mentre Israele attacca in Siria siti di Hezbollah e provoca 18 morti. E poi ancora 40 morti a Khan Yunis e le nuove minacce di Netanyahu nei confronti di Hezbollah e del Libano. Quella di Israele resta una guerra su più fronti, una situazione instabile anche sul confine con la Giordania, che da sempre, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, i governi israeliani di tutti i colori politici sognano di far diventare lo Stato palestinese, risolvendo così l’antica questione dei rapporti tra Tel Aviv e la Palestina.



A quasi un anno dal 7 ottobre, lo scenario non cambia: il conflitto prosegue. Anzi, Netanyahu vorrebbe allargarlo al Libano, per chiudere una volta per tutte la pratica Hezbollah, dimenticando che Israele ha invaso altre volte il Paese dei cedri senza mai risolvere niente. La soluzione militare è sempre stata fallimentare.



Ad Amman ci sono state scene di giubilo dopo l’attentato in cui sono morti tre israeliani a un valico di confine: la Giordania può diventare un nuovo fronte della guerra a Gaza?

Sì. La Giordania è sempre stato un Paese fragile, la maggior parte degli abitanti (più del 70%) sono palestinesi, ai quali spetta un passaporto giordano. Si tratta di un legame che esiste da tempo: prima del 1967, proprio Amman controllava Gerusalemme Est e la Cisgiordania. Le manifestazioni filo-palestinesi e in qualche modo antimonarchiche sono all’ordine del giorno, c’è sempre questo rischio. I palestinesi di Giordania hanno riconosciuto solo 30 anni fa il regno hashemita: nel 1972 Arafat tentò di rovesciarlo in una specie di guerra civile. I giordani, comunque, non dimenticano che il sogno degli israeliani, di destra o laburisti che siano, è sempre stato di trasformare la Giordania nello Stato palestinese. Una speranza che i governi israeliani hanno ancora.



D’altra parte, se, come hanno fatto finora, continueranno a colpire la Cisgiordania, gli israeliani potrebbero spingere i palestinesi a trasferirsi proprio lì.

Il governo di estrema destra sta colpendo duro in Cisgiordania come a Gaza. Il sogno è di mandare la gente oltre il fiume Giordano, sebbene la Giordania sia in pace con Israele dal 1994.

I palestinesi della Giordania possono essere il serbatoio di una eventuale rivolta contro Israele?

Le forze armate giordane sono molto controllate dal re, i palestinesi non avrebbero i mezzi militari per cambiare il potere. Detto questo, sono tanti e le infiltrazioni dei Fratelli musulmani sono forti, anche se tenute sotto controllo dal governo. La Giordania resta un Paese fragile e questo non riguarda solo le sue frontiere con Israele, ma anche quelle orientali e meridionali: l’Iraq è sempre stato un problema, come la Siria. E non dimentichiamo l’Arabia Saudita, che coltiva sempre l’ambizione di condizionare il regno giordano, di sostituirlo nel controllo dei luoghi santi di Gerusalemme. Pochi mesi fa il principe ereditario giordano si è sposato con una giovane saudita.

Le elezioni di ieri in Giordania potrebbero cambiare qualcosa?

Il parlamento non conta molto, chi conta è il re.

C’è stato un nuovo massacro a Khan Yunis, con 40 morti, un attacco in Siria, Netanyahu ha ribadito la necessità di intervenire in Libano per bloccare Hezbollah e permettere alla gente del Nord di Israele di tornare nelle sue case. Israele pensa veramente di continuare una guerra su tutti i fronti?

Tutto questo rientra nella strategia di Bibi Netanyahu per rimanere al potere. Vuole mantenere il conflitto e possibilmente allargarlo per non porre fine alla sua carriera, ma anche per non finire in carcere: ha ben tre capi d’accusa dei quali deve rispondere.

Ma il Paese può reggere uno sforzo del genere?

Israele è abituato a un conflitto permanente. I governi israeliani hanno sempre messo davanti a tutto il pericolo della sopravvivenza del Paese: è un modo per tenere compatta una società molto divisa, non solo fra destra e sinistra, ma fra religiosi e laici, ashkenaziti e sefarditi. Un matrimonio fra un ebreo ashkenazita e un’ebrea sefardita è impensabile.

La guerra sta danneggiando l’economia?

I dati economici non vanno bene, gli israeliani di origini europee fanno la coda ai consolati per avere il passaporto ed emigrare. Molte aziende dell’hi-tech hanno spostato il business negli USA o in Gran Bretagna. La banca centrale israeliana ha pompato miliardi e miliardi di dollari per mantenere alto il valore dello shekel, ma prima della guerra un euro valeva 3,30-3,40, adesso siamo a 4,16. Inoltre, ai giovani richiamati il governo deve pagare lo stipendio.

Quella economica potrebbe essere una leva per far finire la guerra?

Non credo, quando c’è un conflitto gli israeliani si compattano attorno alla leadership militare e politica.

Intanto Netanyahu torna a descrivere come necessaria un’azione in Libano. Alla fine attaccheranno anche lì?

Non è la prima volta che Israele invade il Libano, tra il 1982 e il 2000 Israele ha controllato anche metà del Paese e comunque una presenza israeliana è rimasta per 18 anni. Quando si sono ritirati è nato Hezbollah. Nel 2006 c’è stata un’altra guerra, in cui hanno raso al suolo il Paese, ma il risultato è che Hezbollah è sempre lì. Sono guerre fallimentari.

La soluzione militare è un’illusione?

Come hanno insegnato gli americani in Vietnam e i russi in Afghanistan, le guerre tra Stati che hanno un esercito, anche con armi nucleari, e soggetti non statali sono sempre a vantaggio delle milizie che combattono nella loro terra. Come diceva Mao: “Sono pesci che nuotano nel loro fiume”. Gli eserciti convenzionali falliscono in queste condizioni. Considerando undici mesi di guerra, gli israeliani non hanno perso molti soldati (oltre 300, nda), in Libano non sarebbe così: Hezbollah ha un arsenale militare enorme e ha militari addestrati, più di quanto lo siano i miliziani di Hamas, e hanno combattuto in Siria e in Iraq.

Il nuovo raid nella Striscia, con almeno 40 morti, segue il solito copione: l’IDF sostiene di aver attaccato dei terroristi, mentre sul campo si contano i cadaveri di molti civili. Uno scenario al quale rischiamo di abituarci?

È la conferma di una strategia, tra l’altro molto criticata dai vertici militari, che vorrebbero una tregua, anche perché sanno fin dall’inizio che non possono sradicare veramente Hamas. Le forze armate, però, dipendono dagli ordini del potere politico. Comunque, dal 7 ottobre in poi l’odio degli israeliani nei confronti dei palestinesi è raddoppiato: agli israeliani non interessa se, per ammazzare uno o più miliziani, devono uccidere 50 civili.

(Paolo Rossetti)

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