Se c’è una qualità che distingue John Maynard Keynes dagli economisti del Novecento è la mancanza di dogmatismo. Ma se c’è un elemento che distingue i keynesiani di questo secolo dagli economisti contemporanei è il dogmatismo con cui difendono le loro idee.

Pur avendo una visione dell’economia profondamente innovativa, infatti, l’economista di Cambridge era convinto che la strategia migliore non poteva che nascere dal dialogo, dal dibattito, dal confronto delle idee. E l’economista non doveva essere un profeta carismatico, ma una persona utile e competente.

È anche per questo che Keynes può essere considerato originariamente un liberale e non a caso il piccolo saggio “Sono un liberale?”, scritto nel 1925, è stato scelto come titolo a un libro (prefazione di Giorgio La Malfa, ed. Adelphi, pagg. 320, € 22) che ripropone alcuni scritti che hanno preparato la strada a quella “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” che costituisce uno dei capisaldi della teoria economica contemporanea.

Un liberale secondo una duplice accezione. Da una parte, una sostanziale fiducia nelle capacità delle persone, nelle potenzialità della mente umana e quindi nella possibilità di affrontare in maniera costruttiva i problemi della crescita economica. Dall’altra, la convinzione che dell’importanza del ruolo dello Stato, sia come regolatore, sia come garante della sicurezza sociale, di un’equa distribuzione delle risorse, di un riequilibrio rispetto alle inefficienze congiunturali del mercato, soprattutto sul fronte dell’occupazione.

Con alla base un giudizio sul capitalismo che era esattamente uguale a quello di Churchill sulla democrazia: il peggiore dei sistemi possibili eccetto tutti gli altri. Un sistema, quello del libero mercato, con tanti difetti, ma con il grande pregio di mettere al centro la persona e di affidarle una grande responsabilità etica.

 

 “L’amore per il denaro, per il possesso del denaro – scrive Keynes – (da non confondersi con l’amore per il denaro che serve a vivere meglio, a gustare la vita), sarà agli occhi di tutti un’attitudine morbosa e repellente, da affidare con un brivido agli specialisti delle malattie mentali”. Una condanna drastica per il denaro considerato come un fine e non come uno semplice strumento creato per agevolare le transazioni economiche e il risparmio delle persone e delle famiglie.

 

Allora è forse utile tornare alle idee fondamentali di Keynes, anche se sarà necessario farsi largo tra gli assembramenti dei keynesiani che utilizzano le idee del fondatore per coltivare quel pericoloso statalismo che costituisce uno dei rischi principali per la stessa crescita economica.