La favola di Esopo sulla cicala e la formica è sempre stata uno dei punti di forza dei primi anni di scuola. L’immagine della piccola, silenziosa e operosa formica che durante l’estate si procurava di che mangiare in inverno era il simbolo dell’operosità e della saggezza di fronte alla spensierata cicala, espressione in fondo della società dello spettacolo.

È significativo allora che una piccola formica compaia come immagine di copertina del libro “Come finirà: l’ultima chance del debito pubblico”, (ed. Fazi, pagg. 210, € 17,50) l’ultimo libro di Jacques Attali, uno dei maggiori economisti francesi che ha tra l’altro presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal presidente Sarkozy. Una formica da mettere tuttavia più in una teca di museo che non come immagine di un comportamento ancora attuale.

Negli ultimi anni, infatti, il comportamento degli Stati, in particolare di quelli più industrializzati, è stato quello di far crescere, al di fuori di ogni equilibrio, il finanziamento dei propri bilanci attraverso il debito, creando i presupposti per la crisi che l’Europa sta tentando di affrontare in queste settimane.

Vi è da dire subito, e Attali lo sottolinea molto bene, che non bisogna demonizzare il debito in quanto tale. Non è necessario, e nemmeno utile, essere sempre formiche: è anche giusto, ogni tanto, comportarsi da cicala. Una famiglia, un’impresa, uno Stato che si indebitano non fanno altro che anticipare una possibilità di spesa e quindi si mettono in condizione di vivere meglio, acquistando una casa, di fare nuovi investimenti, acquisendo strumenti di produzione più moderni, di migliorare le infrastrutture e quindi la qualità della vita dei cittadini, costruendo strade, ferrovie, scuole e ospedali.

Il debito si può considerare “buono” se risponde a due requisiti: 1) se è sostenibile, cioè se chi lo chiede ha in prospettiva il reddito necessario per ripagarlo e 2) se è utilizzato per realizzare investimenti (case, macchine, ospedali) e non per finanziare il normale funzionamento dell’attività della famiglia, dell’impresa, dello Stato.

Per molti aspetti l’attuale debito degli Stati, soprattutto quello che si è aggiunto negli ultimi anni per affrontare la crisi, non ha per nulla l’aspetto di un debito “buono”: è servito per evitare dissesti bancari, per evitare di riformare i sistemi sociali, per compensare la diminuzione delle entrate dovuta al rallentamento dell’attività economica. E così negli ultimi anni il rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo delle economie sviluppate ha superato quota 100%.

 

Le vie d’uscita possono essere facili, ma traumatiche, oppure difficili e anche per questo ambiziose. Tra le soluzioni facili si può mettere la dichiarazione di insolvenza, come ha fatto l’Argentina, negli anni ‘90, oppure una fiammata inflazionistica che ridurrebbe anche sensibilmente il valore reale del debito. L’alternativa è in pratica una sola con tante subordinate: innanzitutto rendere sostenibile il debito attraverso la crescita e quindi con la creazione di nuova ricchezza. Ma insieme tagliare le spese improduttive, privatizzare quanto possibile il patrimonio pubblico (lo sottolineava Carlo Pelanda su queste pagine), aggiustare i meccanismi previdenziali adattandoli alle modifiche demografiche e in particolare modo all’allungamento dell’età media di vita. E sullo sfondo rimettere in ordine la finanza internazionale cercando di utilizzare al meglio, e non per speculazioni private, la grande quantità di risparmio che viene generata.

 

Così la sfida del debito può diventare un’opportunità. Con un debito “buono” che non ipoteca il futuro, ma prepara alle giovani generazioni una struttura statale più dinamica ed efficiente.