Il liberismo è sicuramente tra i maggiori imputati dell’attuale crisi economica e finanziaria. Lo stesso documento del Consiglio pontificio Giustizia e Pace, pubblicato a metà ottobre, mette sul banco degli imputati chi ha considerato la teoria economica liberista come un “apriori” capace di modellare un sistema economico senza regole e senza principi morali.
In effetti se si considera il liberismo come una ideologia non si può che sottolineare come la pretesa di muoversi con assoluta libertà al fine di raggiungere il massimo profitto sia comunque in contrasto con uno dei principi liberali di base, quello secondo cui la libertà di ciascuno si deve comunque fermare dove inizia libertà del prossimo.
E peraltro il liberismo come ideologia viene fatto derivare direttamente da quello che viene considerato il padre fondatore della teoria del libero mercato, cioè Adam Smith, con la sua Ricchezza delle nazioni. L’esempio del macellaio, del birraio e del lattaio che facendo i propri interessi comunque contribuiscono a realizzare l’interesse generale viene considerato come la pietra angolare su cui è fondata la teoria liberista, il passaggio di analisi metodologica più importante dopo l”homo hominis lupus” di Thomas Hobbes.
Ma è fortemente riduttivo considerare l’influenza di Smith sul pensiero economico solo per la sua teoria sulle basi dei comportamenti economici, una teoria peraltro fondata sui piccoli commercianti più che imprenditori. Questo perché guardando all’evoluzione del pensiero di Smith con una maggiore apertura storica si possono mettere a fuoco due elementi: il primo nella sua maggiore opera, La ricchezza delle nazioni, dove viene messa in luce la teoria della divisione del lavoro che sta alla conseguenza di tutto il successivo sviluppo industriale; il secondo con la sottolineatura della “simpatia” nel libro meno noto, ma ugualmente importante, Teoria dei sentimenti morali.
In una fase come l’attuale la riscoperta di questo saggio di Smith, scritto 17 anni prima della Ricchezza delle nazioni, appare particolarmente significativa. Soprattutto perché costituisce la premessa indispensabile per comprendere come ogni attività umana, e quindi anche quelle che hanno una precisa valenza economica, non può che tener conto non solo e non tanto di motivazioni personali, quanto in maniera fondamentale, delle dimensioni relazionali.
Come spiega Michele Bee nell’introduzione del libro Economia dei sentimenti (Ed. Donzelli, pagg. 156, euro 9,50), in cui vengono presentati i passi più importati dei due libri dell’economista scozzese, simpatia è una parola di origine greca, in cui pathos indica la disponibilità ad essere modificati da qualcosa che viene dall’esterno, permettendo così di “soffrirne”, e il sym- indica la disponibilità ad essere modificati dal pathos altrui”. Da qui peraltro deriva la parola “compassione”.
Quello che muove le scelte delle persone è allora l’eterna congiunzione tra ragione e sentimento, tra interesse e solidarietà, tra profitto e gratuità. “Per quanto egoista – sottolinea Bee – lo si possa supporre, l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria la loro felicità”.
C’è nella prospettiva di Smith la concezione di una società in cui non è possibile definire delle regole che precedono e guidano l’agire umano, ma è invece possibile giudicare i comportamenti e individuare le motivazioni psicologiche che stanno alla loro base. C’è quindi, al di là delle apparenze, un ragionamento che appare lontano rispetto all’applicazione astratta di una ideologia prefissata. Non solo perché si introduce la categoria dei sentimenti tra gli elementi fondamentali dell’agire economico, ma anche e soprattutto perché la persona viene vista in una integralità che comprende anche le relazioni, le interdipendenze, la propensione ad una felicità condivisa. L’identità della persona trova così la sua dimensione più vera in cui esprimersi in una dinamica continua in cui il dato antropologico fondamentale si compie nell’unione tra la realtà della persona e le sue relazioni. Superando nello stesso tempo sia la tentazione marxiana di dare valore alla persona solo in base alle sue relazioni, sia la pretesa del liberismo radicale che vede le relazioni solo in un’ottica di opportunità e di sfruttamento.
Il vero problema resta quello tuttavia di dare la possibilità ad ogni uomo di essere protagonista nella società e non semplice oggetto, sottoposto a poteri, economici o politici, sempre più grandi di lui.