La Fiat non è solo la più grande industria del nostro Paese. È anche, nel bene e nel male, la rappresentazione più evidente delle grandi risorse di cui può disporre (e dei mille problemi che deve affrontare) la società italiana. La parabola del gruppo torinese, giunto nel 2004 sull’orlo del fallimento e poi rilanciato a livello mondiale da Sergio Marchionne, è significativa perché si colloca all’interno di un grande processo di trasformazione che l’Italia, purtroppo, sembra aver più subìto che saputo guidare.
Lo sottolinea con chiarezza Giuseppe Berta, docente di storia contemporanea alla Bocconi di Milano, nel suo libro “Fiat-Chrysler e la deriva dell’Italia industriale” (ed. Il Mulino, pagg. 140, € 14). “Il progressivo allontanamento dall’orbita dell’Italia della maggiore delle sue imprese industriali, la più emblematica – scrive Berta – non ha le sue origini negli anni più recenti: esse sono lontane nel tempo e risalgono al manifestarsi di gravi sintomi di crisi del nostro sistema delle grandi imprese proprio nella fase in cui veniva a consunzione l’ordine politico ed economico che aveva formato la struttura dell’espansione della società italiana”.
In questa prospettiva rischia di essere del tutto inconcludente la polemica che si è aperta negli ultimi mesi sulla possibilità che la Fiat possa “lasciare l’Italia”. Inconcludente perché di fatto la Fiat è già ora, e fortunatamente, un’impresa multinazionale e la sua presenza in Italia deriva essenzialmente da logiche economiche, produttive e di mercato. Peraltro non bisogna dimenticare che proprio attraverso gli utili conseguiti sui mercati esteri la Fiat ha potuto finanziare i forti investimenti per ristrutturare profondamente lo stabilimento di Pomigliano d’Arco in cui è iniziata la produzione della nuova Panda. Proprio quello stabilimento di Pomigliano d’Arco dove era iniziato anche il duro braccio di ferro tra la Fiat e i sindacati per avviare una nuova organizzazione del lavoro considerata da Marchionne come indispensabile per rendere competitiva la produzione in Italia. E proprio con il caso Pomigliano si sono iniziate ad aprire quelle crepe che hanno alla fine portato la Fiat ad uscire da una Confindustria giudicata incapace di proporre un’efficiente opera di mediazione tra le esigenze della produzione che deve affrontare i mercati globali e quelle di quel grande apparato pubblico e privato che si regge sul rapporto preferenziale con lo Stato. Una rottura clamorosa anche perché non solo con Gianni Agnelli negli anni ‘70, ma anche con Luca di Montezemolo tra il 2004 e il 2008, il presidente della Fiat era stato nello stesso tempo anche presidente di Confidustria.
Il caso Fiat dimostra quindi che il problema di fondo degli ultimi trent’anni è che l’Italia, nelle sue dimensioni rappresentative, ha progressivamente perso la capacità di guidare le trasformazioni con un’efficiente politica economica. La storia industriale italiana è contrassegnata dal tramonto di grandi imprese travolte dalle ambizioni finanziarie, come nei casi Montedison e Olivetti, così come dal fallimento di colossi di Stato, come l’Alitalia. Ma non si possono dimenticare i casi di successo, pochi ma significativi, come Benetton, Luxottica, Geox, gruppi industriali nati non a caso in quel nord-est dove la tradizione è fondata più sul lavoro che sul capitale, più sulla creatività che sulle relazioni politiche, più sull’imprenditoria familiare che sulla finanza fine a se stessa.
La Fiat è così diventata un caso a parte, quasi una pietra dello scandalo per la rottura netta e drastica imposta da Marchionne con le vecchie pratiche consociative e con i rapporti preferenziali con la politica che peraltro non hanno certo rafforzato negli anni la dimensione industriale. E non costituisce certo un fatto positivo che la politica e il sindacato non abbiano ancora compreso i cambiamenti imposti non tanto dalla nuova Fiat, quanto da un mondo globalizzato, iper-tecnologico e purtroppo ancora nel pieno di un ciclone finanziario.
Ma nessuno forse ha ancora una risposta sicura. Resta il fatto che la vicenda Fiat-Chrysler, come conclude Giuseppe Berta, dovrebbe almeno servire a sollevare le domande giuste.