“Appare verosimile che il mondo, dopo essere entrato nella crisi nello stesso momento, con una caduta produttiva di dimensioni analoghe tra i vari paesi e le varie aree, ne esca invece con velocità e tempi diversi. Ma un mondo con queste diversità manterrà ancora l’interesse per un sistema economico globale?”. È questa la domanda più importante a cui rispondere per delineare il futuro dell’economia ed è la domanda che si pone il XV Rapporto sull’economia globale e l’Italia a cura di Mario Deaglio, realizzato dal Centro Einaudi e ora pubblicato con il titolo La ripresa, il coraggio e la paura dall’Editore Guerini e associati, pagg. 204, euro 21.
La velocità e i tempi diversi nell’uscita dalla crisi sembrano ormai dividere il mondo in tre grandi aree. Da una parte quelli che continuano a essere chiamati “paesi emergenti”, ma che partecipano a pieno titolo all’economia globale e crescono a ritmi tra il 5 e il 10 percento annuo, con in primo piano la Cina insieme agli altri Bric (Brasile, Russia e India) e agli Stim (Sudafrica, Turchia, Indonesia e Messico).
Poi ci sono i due colossi, gli Stati Uniti e la Germania, che hanno recuperato rapidamente le posizioni precedenti la crisi. E infine ci sono gli altri Paesi “ricchi”, in cui la situazione è fortemente differenziata: si va dalle cifre ancora negative della Spagna, alla ripresa limitata e affaticata dell’Italia, alla crescita, più solida, ma non certo esaltante, di Francia e Gran Bretagna.
E a livello globale “il mondo – afferma il rapporto – non appare più nettamente diviso in paesi ricchi e paesi poveri. Tra queste due grandi categorie si inserisce un terzo raggruppamento, costituito dai paesi in cui risiede quasi la metà della popolazione mondiale nei quali sono chiaramente visibili segnali concreti di miglioramento del tenore di vita”.
Per alcuni aspetti, la crisi ha accentuato i contrasti. I Paesi più strettamente dipendenti dall’economia finanziaria (da una parte gli Stati Uniti, dall’altra i paesi europei con un forte debito pubblico) hanno subito maggiori contraccolpi e hanno anche dovuto accettare un forte aumento dell’intervento pubblico nell’economia per evitare eccessive conseguenze sociali.
E proprio la dimensione sociale potrebbe vedere aprire nuovi fronti di crisi. Nei paesi industrializzati la disoccupazione è cresciuta in maniera significativa e la ripresa non appare in grado di creare i posti di lavoro necessari a dare concrete speranze ai giovani e a chi ha perso l’occupazione. Tanto che, negli Stati Uniti come in Italia, le statistiche dimostrano come cresca il numero degli “scoraggiati”: apparentemente la disoccupazione sembra scendere, come è avvenuto nell’ultimo trimestre negli Usa, ma semplicemente perché diminuisce il numero delle persone che cercano “attivamente” un nuovo posto.
Le ragioni per cui ci troviamo di fronte ad una jobless recovery, a una ripresa senza creazione di posti di lavoro, sono molteplici. Ci sono le scelte di ristrutturazione delle aziende, che cercano di tagliare i costi per recuperare competitività. C’è lo spostamento verso produzione a minor intensità di lavoro. C’è l’effetto informatica e automazione che incide sulla tradizionale organizzazione del lavoro.
E la risposta della politica economica non è certo facile. Le politiche parzialmente keynesiane adottate negli ultimi mesi hanno sì salvato banche e società industriali (da Citibank alla General Motors), ma non hanno portato a un significativo aumento della domanda e quindi della produzione.
Tanto che ormai sembra consolidata la prospettiva di un abbassamento strutturale delle prospettive di crescita per l’effetto congiunto di molti elementi: la sostanziale stagnazione demografica, l’esaurimento dei margini di manovra della finanza pubblica, i limiti crescenti imposti dagli squilibri ambientali (pensiamo all’inquinamento dell’aria nelle grandi città), lo spostamento verso altre aree dei tradizionali complessi industriali. Di questa prospettiva, l’Italia rischia di essere un disarmante paradigma, come dimostra il decennio di sostanziale stagnazione che ha preceduto gli anni della crisi.