C’è qualcosa che sembra essere mancato  nelle celebrazioni, pur estremamente significative, dei 150 anni dell’Unità d’Italia: una riflessione approfondita sulla storia dell’economia, sui fattori che hanno portato il Paese a diventare una delle grandi potenze industriali del mondo, sull’innegabili crescita che tuttavia ha lasciato aperto il problema delle profonde disuguaglianze tra Nord e Sud.
Si potrebbe scoprire così che l’Italia ha pertecipato a pieno titolo alla rivoluzione industriale alla fine dell’Ottocento con le grandi aziende tessili, siderurgiche, chimiche, e con un sistema del credito che ha saputo sostenere, anche grazie ai legami internazionali, uno sviluppo manifatturiero che non è stato solo (ma anche) quello del miracolo economico degli anni ’60.
Ma proprio guardando all’ultimo mezzo secolo c’è un aspetto particolamente interessante che viene messo nel giusto rilievo da Giampiero Cantoni nel libro “Sviluppo e stabilità” (Ed. Spirali, pagg.200, €25) dedicato proprio all’anniversario dell’unità d’Italia. Il fatto che “lo sviluppo industriale italiano è stato come nessun altro, caotico, imprevedibile e imprevisto. Davvero “imprenditoriale”. Ogni tentativo di pianificarlo, di disegnarlo dall’alto in basso, di instradarlo in questa o quella direzione, è risultato inevitabilmente frustrato dai fatti”. Questo perchè la realtà profonda dell’economia si è fondata, al di là della retorica, sulla spina dorsale della piccola e media impresa, cioè sulla volontà, la passione, la dedizione e, perchè no, anche la voglia di guadagnare, di generazioni di imprenditori che senza aver letto Schumpeter, mettevano in pratica i meccanismi dello sviluppo industriale.
Una realtà che molto spesso si è tradotta in crescita “nonostante” lo scenario in cui si è trovata a competere. “Nonostante” per l’indifferenza dei Governi, per la carenza di strumenti di conoscenza, per la difficoltà di avere una rappresentanza di alto livello. E’ stato così che le grandi imprese hanno dovuto scendere a patti con la dimensione della politica: e l’Italia ha perso anche per questo il treno della chimica, quello dell’informatica, quello della ricerca di base. La politica della programmazione e delle nazionalizzazioni è stata molto più di un errore strategico, è stata battaglia persa in partenza contro la razionalità e la logica di un sistema economico. Non si possono che ricordare con amarezza quegli investimenti subito definiti “cattedrali nel deserto” che hanno indirizzato fondi di tutti agli interessi di pochi.

La piccola impresa è invece cresciuta, soprattutto come sistema, perchè ha dovuto confrontarsi con il mercato, perchè ha potuto contare su di un sistema bancario (per esempio quello delle banche cooperative) profondamente legato al territorio, perchè ha saputo incrementare il circolo virtuoso tra il risparmio delle famiglie e le necessità aziendali.
Ma la piccola impresa non si può limitare a confrontarsi con il mercato. Deve fare i conti con un sistema in cui, come scrive Cantoni, “cent’anni di statalismo hanno contribuito a costruire quella che si chiama “economia di relazione”: un forte accentramento di potere nella politica e nei gruppi finanziari limitrofi”.
Un’economia di relazione. In cui il merito, la professionalità, la capacità, l’esperienza possono venire sacrificati a scelte che rispondono ala logica del “do ut des”, del fare un piacere per ricevere un favore, del trovare un accomodamento in base ai rapporti di forza. E’ così che una società si blocca, impedisce il ricambio con forze giovani, delude chi aggiunge il coraggio alla passione. E’ con questa società che l’economia reale delle piccole imprese ha dovuto confrontarsi: e fortunatamente spesso riuscendo ad affermare le ragioni del mercato, della sana competizione, della  crescita.