Qualcosa si muove. Nella realtà delle piccole e medie imprese su cui è fondata l’economia italiana sono sicuramente passate le onde lunghe della crisi del 2009 e si stanno manifestando, pur con contrasti e differenze, significativi indicatori di una crescita in gran parte trainata dalle esportazioni. La capacità di adattamento, la volontà di innovazione, la ricerca di soluzioni nuove stanno muovendo le imprese nonostante le difficoltà di un contesto in cui pesa la mancanza di una seria politica economica e l’eterno rinvio di riforme importanti come quella del fisco.
Qualcosa si muove anche perché sembra crescere e prendere sostanza una riflessione che coinvolge le imprese e le cosiddette parti sociali, gli imprenditori e i manager, la realtà associativa e, in piccola parte, anche la politica. Una riflessione che passa attraverso un processo critico della tradizionale visione quantitativa per arrivare invece a riscoprire nel valore dell’impresa anche, e soprattutto, i suoi elementi di responsabilità sociale partendo dalla “comunità di lavoro” delle persone che la compongono.
Sembra quasi di poter ripartire dall’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II che ha offerto un giudizio positivo del capitalismo, se con “capitalismo si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata, della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, e anche se sarebbe più appropriato parlare di ‘economia d’impresa’ o di ‘economia di mercato’, o semplicemente di ‘economia libera’”.
In profonda continuità con questa visione, la recente Caritas in veritate di Benedetto XVI ha ampliato il significato di economia d’impresa sottolineando come un mercato può essere realmente efficiente e tendere a creare condizioni di maggiore giustizia solo se comprende e lascia dare frutto a valori come la gratuità, il dono, la partecipazione. In questa prospettiva è allora importante riflettere sulle motivazioni del fare impresa e riscoprire come l’efficienza e la capacità di stare sul mercato dipendano non solo da scelte tecniche, organizzative, logistiche, ma anche e soprattutto dalla motivazione delle persone, da valori che non hanno paura di trasformarsi in ideali.
È quanto ci ricorda Luigino Bruni che, assieme ad Alessandra Smerilli, ha scritto un libro La leggerezza del ferro, un’introduzione alla teoria economica delle Organizzazioni a movente ideale (edizioni Vita e pensiero, pagg. 140, euro 14). Non si tratta, come potrebbe lasciar credere il titolo, di un manuale per la gestione di conventi, case d’accoglienza o associazioni filantropiche. Proprio nell’ottica della Caritas in veritate, infatti, gli autori sottolineano che “diminuisce sempre più ai fini del successo e della durata delle imprese il peso relativo dei capitali tecnologici e finanziari e aumenta quello delle persone, (del capitale umano), del capitale sociale e civile, dei beni relazionali”.
E le persone, con buona pace di Adam Smith, non agiscono solo per il proprio interesse personale e così le imprese, tutte le imprese, non si muovono solo per il profitto, anche se questo resta fondamentale per una corretta gestione. Ecco allora il sistema economico come una realtà dove ci può e ci deve essere spazio per realtà diverse, per luoghi che diano risalto a quell’unicità dell’esperienza umana che Hayek considera un elemento vitale anche perché incorpora la conoscenza delle generazioni precedenti.
L’impresa moderna è così quella che sa mettere a frutto esperienze diverse, che sa offrire spazi alle motivazioni ideali, che riesce a muovere la partecipazione. La realtà italiana sembra positivamente riscoprire il valore di una vera economia di relazione. Ma non quelle relazioni che sono un favore reciproco, un do ut des, una spinta tra amici. Le relazioni che contano sono quelle che riconoscono la capacità, la professionalità, l’esperienza. E che sanno valorizzare ogni persona innestando il senso economico sulla grande dimensione dell’umanità.