Il dibattito, molto ideologico e poco concreto, che si sta svolgendo sulla “presunta” privatizzazione dell’acqua ha comunque il merito di mettere in luce uno dei grandi paradossi del rapporto tra Stato e cittadini. In Italia, infatti, vi è una diffusa convinzione che il settore pubblico sia sostanzialmente inefficiente: costi più alti, norme più arretrate, mancanza di motivazione, eccessiva presenza delle logiche politiche spesso clientelari.

Il termine “pubblico” è associato a burocrazia, procedure lente, controlli solo formali, ingerenza strumentale della politica. Ma quando il “pubblico” viene contrapposto al “privato”, allora sembra scattare un complesso di superiorità, e “pubblico” diventa automaticamente e naturalmente sinonimo di “bene comune”, mentre “privato” rimane inevitabilmente riconducibile agli interessi e al profitto di singoli per loro natura contrapposti agli interessi collettivi.

Questa contraddizione c’è tutta nel confronto sul tema dell’acqua, un tema che è stato palesemente cavalcato sfruttando l’unanime e giusta convinzione di fondo dell’importanza vitale dell’acqua per la vita umana, per la salute, per il benessere. L’acqua è un bene da difendere, da proteggere, da salvaguardare a tutti i costi: su questo sono tutti d’accordo.

Però, se è vero che l’acqua è un elemento abbondante in natura, almeno in Italia, è altrettanto vero che sono necessarie strutture e tecniche particolari per captarla, controllarla, se necessario purificarla, distribuirla, raccoglierla dopo l’uso, depurarla e quindi restituirla alla natura. Tutti passi che servono a utilizzare e salvaguardare quel bene collettivo. Tutti passi che in Italia presentano molti punti deboli: acquedotti vecchi con grandi perdite, distribuzione a singhiozzo in molte città del Mezzogiorno, depurazione ancora inefficiente con inquinamenti anche gravi di fiumi e laghi.

È vero, l’acqua scende dal cielo, ma per utilizzarla al meglio occorrono investimenti anche rilevanti. Se questi investimenti li fa lo Stato o i Comuni, li pagano tutti i cittadini attraverso la fiscalità generale, se li fanno i privati li pagano lo stesso i cittadini, ma almeno in parte attraverso una politica tariffaria che premi l’efficienza e la razionalità degli interventi.

Il problema di fondo è proprio questo: nessuno discute il fatto che l’acqua sia all’origine un bene pubblico, ma il tubo che la porta nelle nostre case deve essere per forza di proprietà pubblica oppure può essere di una società privata che ha ottenuto una concessione dallo Stato e che quindi ha accettato precise regole e ha fornito adeguate garanzie? Ma uscire dalle ideologie e dai massimalismi in questo settore sembra essere difficile, anche se resta comunque necessario.

Lo dimostrano due libri che, con molta accuratezza scientifica e senza pregiudizi ideologici, analizzano il problema dell’acqua. Il primo è dell’imprenditore svedese Fredrik Segerfeldt, “Acqua in vendita” (Ed. Istituto Bruno Leoni, pagg. 180, € 15), il secondo di Antonio Massarutto, docente di economia all’Università di Udine, “Privati dell’acqua?” (Ed. Il Mulino, pagg. 258, € 16).

Da una parte si prendono in esame molte esperienze internazionali e si dimostra come non sia per nulla riscontrata nei fatti una presunta superiorità di efficienza del settore pubblico, dall’altra si esamina il caso italiano per dimostrare come per dare al settore la doverosa modernizzazione sia praticamente indispensabile una nuova alleanza tra pubblico e privato in cui “il ruolo pubblico, che in questo settore non può evidentemente mancare, può essere assolto meglio se si concentra nella funzione di regolazione, invece che sulla gestione diretta”.

Come spiega Oscar Giannino nella prefazione al libro di Segerfeldt, “non è l’acqua condizione dello sviluppo, ma lo sviluppo condizione dell’accesso all’acqua e di un suo più efficiente utilizzo. Si tratta dell’esatto contrario di quanto predica ogni ideologismo, sia ambientale sia delle forme di controllo proprietario dei soggetti che gestiscono il servizio”.