L’Italia è alla disperata ricerca di ricette per la crescita. Ma per ora le strade indicate, in particolare quella della liberalizzazioni, sembrano portare in altre direzioni. Probabilmente affrontando problemi reali e creando nuove opportunità, ma che difficilmente potranno riuscire a conquistare qualche punto di Prodotto interno lordo in più.
Certo è strano vedere una difesa accanita della situazione esistente, come se ogni categoria vivesse nel migliore dei mondi possibili. In teoria dovrebbero essere i farmacisti i primi ad affermare la loro professionalità senza ridursi a essere dei semplici commessi di un comune negozio. E i notai dovrebbero essere i primi a rifiutarsi di fare i semplici passacarte firmando i moduli dei passaggi di proprietà preparati dalle loro segretarie. Segretarie che così come i commessi dei negozi esercitano un nobile e più che dignitoso lavoro, che richiede competenza e passione, ma che è qualcosa diverso da una “professione”.
Questa battaglia sulle liberalizzazioni dimostra comunque come uno dei grandi temi politici sia in Italia proprio quello delle “rendite di posizione”, delle garanzie diffuse che singolarmente pesano poco, ma che complessivamente rendono più difficile l’espressione delle potenzialità personali e sociali. Ne esce un Paese sostanzialmente conservatore, teso a difendere le garanzie che possono derivare da un piccolo ordine professionale, così come da un grande sindacato. Detto questo, resta il fatto che la crescita è un’altra cosa. Perché i fattori che negli ultimi vent’anni hanno praticamente bloccato l’economia italiana hanno poco a che fare con gli ordini professionali e le licenze di taxi.
Al primo posto c’è infatti la stagnazione demografica. Una popolazione che non aumenta se non per l’apporto degli immigrati, una popolazione in cui nello stesso tempo pesano sempre di più le classi più anziane che meritano tutto il nostro rispetto, ma non producono, gravano sulla spesa pubblica e consumano con l’andar degli anni sempre di meno. Ci sono poi da considerare la carenza di innovazione, il basso livello dell’istruzione, le risorse limitate destinate alla ricerca sia da parte del settore pubblico, sia da parte dei privati. E a fianco di questa realtà l’inefficienza della Pubblica amministrazione, la complessità delle procedure burocratiche, la lentezza della giustizia. Per finire con un livello di pressione fiscale talmente elevato da scoraggiare i consumi dei privati e gli investimenti delle imprese.
E di fronte a un problema così complesso non possono esserci soluzioni semplici. Possono esistere tuttavia soluzioni sbagliate, ed è quello che bisogna scongiurare. Per esempio, evitando di pensare che le vecchie ricette possano adattarsi a una realtà economica, e tecnologica, completamente diversa dal passato. “Economia 2.0 – Il software della crescita” di Arnold King e Nick Schulz (Ibl Libri, pagg. 330, €24) è in questa prospettiva un libro che attraverso analisi, riflessioni, interviste e commenti mette a fuoco una dimensione semplice da affermare, ma terribilmente complessa da realizzare: la dimensione di una società capace di costruire sull’innovazione una risposta realisticamente ambiziosa ai problemi della crescita.
Un’innovazione capace di spostare in avanti i problemi dell’economia cercando non tanto di dare delle risposte giuste, quanto di riuscire a porre le domande giuste. Per esempio: è meglio progettare lavanderie sempre più economiche ed efficienti o realizzare camicie che non hanno più bisogno di essere né stirate, né lavate? Ma con una grande provocazione di fondo: “I mercati spesso falliscono ed è questo il motivo per il quale abbiamo bisogno di loro”. Perché l’innovazione nasce molto più facilmente dalle forze di mercato, dalla libertà economica, dalla possibilità di forti ritorni economici per le innovazioni vincenti.
Ecco allora che anche le liberalizzazioni all’italiana possono avere un ruolo. Per poter affermare che, nonostante tutti i difetti, il mercato è ancora il miglior sistema per mettere a frutto le potenzialità di ciascuno.