Il Nord-Est (che normalmente indica il territorio che comprende il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Trentino Alto Adige) costituisce uno dei punti di forza e insieme uno degli esempi più efficaci del cammino di crescita dell’Italia degli anni del miracolo economico. Una terra tradizionalmente di emigrazione, che era stata progressivamente emarginata dai grandi traffici commerciali, con grandi tradizioni culturali, ma sostanzialmente priva di un tessuto industriale, ha saputo in pochi anni realizzare una trasformazione che si può facilmente considerare epocale.
Piccole botteghe artigiane hanno avuto la capacità di trasformarsi in grandi complessi industriali, territori isolati dal mondo hanno visto crescere realtà divenute dei colossi mondiali, attività fortemente innovative hanno saputo marciare di pari passo con un progressivo rafforzamento dei settori tradizionali, grandi imprese hanno saputo consolidare una rete di subfornitura che ha creato a sua volta nuove aziende capaci di crescere autonomamente. Dalla Luxottica alla Marzotto, da Zanussi a Benetton, da Snaidero a Illy, ci sono mille esempi di come il Nord-Est abbia rappresentato, magari inconsapevolmente, un terreno che si è dimostrato ideale per unire insieme gli elementi che possono fare il successo di un’impresa: la passione imprenditoriale, la capacità di chi vi lavora, il sostegno, magari silenzioso, del territorio nella sua dimensione politica e sociale.
Tutto questo nonostante uno scenario esterno che non facilita per la carenza delle infrastrutture, per la pesantezza della politica nazionale, per i vincoli burocratici, amministrativi, fiscali. Probabilmente nel Nord-Est ha giocato qualche elemento di fondo inesistente in altre parti d’Italia: la tradizione di sobrietà e di correttezza amministrativa ereditata dall’Imperial Regio Governo e una complicità nascosta tra imprese, sindacati e pubblici poteri, una complicità (anche se nessuno lo può ammettere esplicitamente) che faceva chiudere un occhio sulla correttezza fiscale quando l’impresa si impegnava a far crescere l’occupazione.
È anche vero che la realtà del Nord-Est esiste solo se vista dall’esterno, come rappresentazione in fondo teorica di una dimensione che, alla prova del tempo, non possiede requisiti di unitarietà, di logiche comuni, di politiche solidali. Trento e Trieste sono unite solo dalla tradizionale retorica irredentistica, ma non hanno nulla che le unisca a livello economico o politico, o almeno non di più di quanto unisca Bolzano a Bologna o Udine a Milano.
Il Nord-Est non esiste è in fondo la provocazione di Daniele Marini, direttore della Fondazione Nord Est, nel suo ultimo saggio (che uscirà in libreria l’8 febbraio) “Innovatori di confine: i percorsi del nuovo Nord Est” (ed. Marsilio, pagg. 142, € 10). “Hanno ragioni da vendere – scrive Marini – quanti sostengono che il Nord Est non esiste come entità unica e unitaria”, ma resta il fatto che quel territorio compreso tra il Garda, il Po, l’Adriatico e i sempre più evanescenti confini con Slovenia e Austria ha costituito e continuerà a costituire in futuro, non solo una realtà visibile e positiva, ma anche un laboratorio per delineare i possibili nuovi caratteri di sviluppo e crescita della società italiana.
Allora bisogna ripartire tenendo conto che comunque “i fattori propulsivi” che avevano nei decenni passati spinto la crescita ora sono giunti al limite, come scrive Marini, e si è passati “dalla grande disponibilità di manodopera al calo demografico, alla carenza di lavoratori locali; dalla gestione familiare delle imprese, alla difficoltà nel passaggio generazionale; da una campagna progressivamente urbanizzata e libera, a un territorio saturo negli spazi e nelle infrastrutture”.
Ma insieme a questi elementi gli ultimi anni del secolo scorso e i primi anni di questo Terzo millennio hanno comunque messo in luce una grande trasformazione, addirittura una metamorfosi, sia dello scenario esterno, con l’irrompere tumultuoso della globalizzazione, sia degli equilibri interni con la crescente immigrazione, la ricerca di nuove forme di coesione sociale, la trasformazione della consolidata adesione ai valori e al mondo cattolico.
Allora quale potrà essere il futuro del Nord-Est? Un’area sempre più integrata al resto del Paese e quindi omogenea con la realtà nazionale, oppure una dimensione in modi diversi caratteristica e quindi con elementi forti di identità locale. Probabilmente gli schemi di un tempo non sono più adatti a interpretare il presente e a delineare il futuro. Con un tema di fondo che, con molto significato, conclude l’analisi di Marini: il futuro starà anche e soprattutto nella capacità delle classi dirigenti di guidare forme nuove di crescita, più aperte, più fondate sulla qualità, maggiormente capaci di innovazione a 360 gradi.
In verità la formazione e la selezione delle classi dirigenti non è una grande specialità italiana, dove le relazioni e lo scambio di favori hanno preso e prendono troppo spesso il posto del merito e della professionalità. Ma c’è da sperare che la concretezza dei decision maker del Nord-Est possa superare anche questo problema.