C’è un grande e giustificato affannarsi in questi mesi per cercare soluzioni “tecniche” per affrontare e possibilmente uscire dalla crisi economica e finanziaria. Soprattutto per l’Italia, dove l’essere arrivati in autunno a un passo dal disastro finanziario e la conquista di un salvagente nel Governo di Mario Monti costituiscono due momenti di svolta che hanno fatto toccare con mano la dimensione dell’emergenza.
Per la gran parte dei cittadini, tuttavia, le cause della crisi finanziaria, il suo dipanarsi tra Stati Uniti ed Europa, i rischi di frantumazione della moneta unica costituiscono elementi lontani, dimensioni in cui ci si sente decisamente molto più vittime che protagonisti. E allora sembra crescere, come dimostra la fiducia verso il Governo Monti, l’attesa verso poche scelte giuste che possano far tornare il sereno sui mercati finanziari e, soprattutto, riavviare quella crescita che è di fatto l’unica possibilità per affrontare costruttivamente il problema della disoccupazione e per dare allo Stato le risorse necessarie per una vera politica di equità.
C’è un nodo di fondo molto importante tuttavia: è illusorio pensare che la crisi riguardi solo “gli altri” e che in fondo bastino poche e ben meditate scelte politiche per tornare agli anni della tranquillità. C’è infatti una dinamica significativa nello scenario di valori a cui fa riferimento la vita personale e collettiva di ciascuno. Lo mette molto bene in rilievo la European value study, un’indagine sociologica condotta a livello europeo e giunta alla sua quarta edizione. E i cui risultati sono illustrati nel libro “Uscire dalla crisi – I valori degli italiani alla prova” curato da Giancarlo Rovati (Ed. Vita e pensiero, pagg. 510, € 25).
La dinamica è costituita in modo particolare dall’accentuarsi di una significativa dicotomia negli orientamenti degli italiani. Da una parte “esprimono – scrive Rovati – orientamenti positivi a livello dei propri mondi vitali, ovvero delle loro cerchie di prossimità dove si instaurano rapporti personali, incontri diretti, solidarietà immediate, legami fiduciari verificabili”. Dall’altra parte esprimono invece orientamenti negativi “quando si rapportano con le organizzazioni collettive e le istituzioni pubbliche, verso cui nutrono una diffusa sfiducia, perché le considerano lontane e inefficienti”.
C’è un divario che si sta ampliando proprio per effetto della crisi economica. E c’è uno scetticismo verso ciò che è lontano o che è diventato lontano, come la politica, mentre cresce la fiducia verso le esperienze più vicine, verso le realtà direttamente controllabili. Così come cresce la sfiducia non solo verso le istituzioni, ma anche verso tutto quello che richiede complessità organizzativa, grandi progetti, visioni di lungo termine. Ma fortunatamente riprende spazio, quasi come contrappasso, la tensione verso l’orientamento al bene comune, in una logica disinteressata di volontariato, di condivisione, di sostegno (magari solo finanziario) alle iniziative assistenziali o alle associazioni che sostengono la ricerca scientifica e medica.
È anche in questa prospettiva che la crisi, senza perdere i connotati della propria gravità, può essere considerata un’occasione per riscoprire la centralità della persona, con tutti i suoi caratteri, e quindi l’apertura verso la condivisione e la solidarietà. Quasi come se la dimensione sociale riflettesse le indicazione della “Caritas in veritate”, dove l’economia del dono viene rilanciata come elemento fondante, e non semplicemente accessorio, nell’ambito della dimensione sociale.
Ecco allora che di fronte alla crisi le soluzioni tecniche appaiono nello stesso tempo necessarie e limitate, indispensabili, ma non sufficienti. Perché il problema di fondo è quello di ridare all’economia quel senso e quei valori che le tentazioni della finanza hanno sconvolto.