C’è qualcosa di peggio di non avere una medicina quando scoppia la febbre… è avere la medicina sbagliata. È quanto rischia di avvenire di fronte alla crisi finanziaria che da tre anni scuote l’Europa. Le ricette messe in campo per affrontare le difficoltà della Grecia, della Spagna e anche dell’Italia hanno infatti tutte le caratteristiche per mettere, più che un salvagente, una camicia di forza a economie che invece avrebbero bisogno di trovare la strada della crescita.

Se è vero che il risanamento dei conti pubblici è indispensabile per evitare che la crisi del debito si avvolga su se stessa, è altrettanto vero che gli interventi che raffreddano l’economia, come i tagli ai salari e gli aumenti delle imposte, hanno alla fine il risultato perverso di rendere ogni Paese più debole e più fragile di fronte alle esigenze di sviluppo: senza dimenticare i costi sociali di una crescente disoccupazione che penalizza soprattutto i giovani e le donne.

L’Europa sembra così trovarsi in un vicolo cieco. Le difficoltà attuali sono indubbiamente dovute alla politica della spesa facile, dei bassi tassi di interesse, dell’allargamento delle promesse dello Stato sociale, ma chiedere una brusca inversione di tendenza appare non solo difficile, ma anche ricco di ulteriori elementi negativi. Come uscirne? Vladimiro Giacchè, economista, finanziere e anche un po’ filosofo, compie un’analisi accattivante e dettagliata delle cause della crisi degli ultimi in un libro il cui titolo non promette nulla di buono, “Titanic Europa”, (Ed. Aliberti, pagg. 176, € 14), ma nelle cui pagine si ritrovano anche indicazioni controcorrente per una possibile soluzione.

La tesi di fondo è che in questa fase non bisogna assecondare la tentazione di tagliare, di privatizzare, di condurre a tutti i costi in equilibrio i conti pubblici. Ci sarebbe invece bisogno di una sana politica keynesiana, di una programmazione, di una fase di nuovi grandi investimenti pubblici. “Già affermare questo – ammette Giacchè – significa entrare in rotta di collisione con l’ideologia che ci ha abituati a identificare il ruolo dello Stato con quello di un vigile urbano che si limita a controllare che il traffico dei mer­cati non sia troppo disordinato; e che non deve svolgere in prima persona neppure questo compito, bensì affidarlo ad autorità indipendenti o presunte tali: di qui, l’in­credibile proliferazione di authority, che in Italia ha giovato ben poco all’efficienza dei rispettivi mercati”.

L’obiettivo è certamente ambizioso, ma non si può non riconoscere che in taluni ambiti di interesse generale, dalle telecomunicazioni all’energia, dalle ferrovie ai porti, è difficile che il settore privato realizzi grandi investimenti, destinati peraltro a essere ripagati solo nel medio-lungo termine. Il problema, soprattutto per l’Italia, non sta tuttavia tanto nelle risorse quanto nell’efficienza degli apparati statali. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si sono impiegati nove anni per completare i 760 km dell’autostrada del Sole, da Milano a Napoli. Da nove anni l’Italia sta discutendo del progetto Torino-Lione senza che siano ancora iniziati i lavori.

C’è da pensare che le politiche keynesiane in Italia non siano difficili, ma siano a questo punto difficilmente gestibili. La speranza potrebbe essere l’Europa, attraverso lo strumento degli euro-bond destinati proprio a finanziare le grandi infrastrutture. E allora, come sostiene Giacchè, un’Europa maggiormente coesa, politicamente unita, e con un più elevato tassi di democrazia, potrebbe essere la soluzione.