La parola “crescita” è probabilmente una delle parole più pronunciate nel dibattito politico degli ultimi mesi. Tutti chiedono misure per la crescita e tutti i Governi dicono di considerare la crescita come una priorità assoluta dopo aver messo in sicurezza i conti pubblici.
Eppure non solo la crescita non si vede all’orizzonte, ma l’Italia continua ad avere i risultati peggiori in quasi tutti i parametri economici ed appare ancora lontana la possibilità di tornare almeno ai livelli del 2008, cioè prima della grande gelata globale dell’economia.
Il problema è tanto più grave perchè la situazione di stallo non è un dato degli ultimi anni: è dall’inizio degli anni ’90 che l’economia italiana continua a far segnare risultati nettamente inferiori a quelli degli altri paesi europei. La stagnazione pare quindi diventata un elemento strutturale, legato alle caratteristiche del mercato interno, e non tanto un elemento congiunturale, legato alle variazioni momentanee della domanda e dell’offerta, cioè del ciclo economico.
Un’analisi altrettanto precisa quanto impietosa della realtà italiana è quella contenuta nell’ultimo libro di Roger Abravanel e Luca d’Agnese, “Italia, cresci o esci! – Meritocrazia e regole per dare un futuro ai giovani” (ed. Garzanti, pagg.168, € 9,90). I due autori, provenienti dalla scuola manageriale della McKinsey, hanno già negli anni scorsi scosso l’albero della pigrizia mentale con il libro “Meritocrazia” dove già veniva messo chiaramente in luce come proprio il mancato riconoscimento del merito fosse da considerare una delle più importanti cause dell’attuale, difficile situazione italiana.
Una società guidata dal merito è una società che sa valorizzare i talenti, che premia la passione e la dedizione, che sa sviluppare la professionalità, che sa sostenere chi raggiunge gli obiettivi prefissati. All’opposto c’è la società italiana dove le relazioni vincono sulla professionalità, dove le garanzie hanno la meglio sulle capacità, dove la logica dell’interesse particolare supera costantemente la visione del bene comune.
In questa dimensione la crescita non è un problema di risorse, non è un problema di denaro (pubblico) da mettere nell’economia. Anzi è proprio l’allargarsi della sfera pubblica, in larga parte inefficiente, che costituisce molto più un problema che una soluzione.
Il nodo di fondo è costituito da una classe politica sostanzialmente inadeguata a cui si aggiunge una leadership economica che non riesce, se non in pochi casi, a superare i riflessi condizionati del passato. La politica appare ormai tesa soprattutto all’autoconservazione rendendo vani i pur piccoli sforzi di cambiare qualcosa. Stanno così sostanzialmente svanendo le ipotesi di dimezzare il numero dei parlamentari, di abolire le province, di ridurre drasticamente il finanziamento ai partiti, di semplificare le dimensioni della burocrazia.
E allo stesso modo sembrano progressivamente vanificarsi i tentativi di introdurre maggiore merito nelle strutture scolastiche, di migliorare la giustizia nel senso dell’efficienza, di snellire le procedure amministrative. Tutto viene inghiottito nelle sabbie mobili della pervicace volontà politica di non cambiare nulla.
E’ significativo che l’analisi di Abravanel e D’Agnese si concluda con due precise linee guida in qualche modo rivoluzionarie. In primo luogo far avanzare una nuova leadership nel paese facendo avanzare chi veramente ha saputo conquistare posizioni sul libero mercato e non i tradizionali professionisti della rappresentanza. In secondo luogo dare fiducia ai giovani riaprendo loro gli spazi nel lavoro e nelle professioni.
Possono sembrar due utopie eppure qualche segnale di cambiamento c’è. Nel Governo Monti, per esempio, che tuttavia deve continuamente scontrarsi con lo logica politica (e sindacale) dell’immobilismo. Ma soprattutto nella sensibilità comune che riesce sempre meno a sopportare i mille privilegi che tagliano l’era sotto ai piedi ai giovani.
E se l’Italia ritrovasse, nel rispetto delle regole, lo spazio per valorizzare la responsabilità delle persone e dei gruppi sociali, avrebbe fatto il passo più importante sulla strada della crescita. Un cambiamento che deve essere possibile anche se per ora è (quasi) un’illusione.