Sopravviveranno i sindacati al 2015? La domanda non è retorica se è vero, come è vero, che una delle più recenti analisi delle rappresentanze dei lavoratori (“I sindacati” di Mimmo Carrieri, ed. Il Mulino, pagg. 140, € 9,80) inizia con un’analoga domanda: “Servono ancora i sindacati?”. Cassieri, che insegna sociologia ed economia del lavoro all’Università di Teramo, traccia un’analisi sintetica, ma estremamente efficace, della parabola dei movimenti operai, dalla loro importantissima funzione nel far rispettare i diritti negli anni della Prima rivoluzione industriale alla progressiva perdita di incidenza ed efficacia di fronte ai cambiamenti della globalizzazione. E concentrando l’attenzione sull’Italia non si può non vedere come il sindacato si trovi di fronte a un bivio estremamente impegnativo: difendere il modello tradizionale di relazioni industriali, un modello basato sul conflitto, ma costruito su misura delle grandi imprese che non ci sono più, oppure accettare un difficile impegno per difendere il sistema del lavoro nel suo complesso con una grande attenzione ai giovani, alla flessibilità positiva, alla riduzione delle disuguaglianze.
E’ difficile pensare di poter essere incisivi rispondendo con vecchie strategie alle nuove esigenze dei mercati. La crisi della Fiat appare in questo senso emblematica, così come le altre crisi industriali che stanno drammaticamente caratterizzando questo autunno e che fanno venire al pettine i nodi che per decenni non sono stati affrontati. Perché oltre ai problemi sociali, che dovrebbero stare in primo piano, ci sono sullo sfondo le conseguenze di una politica industriale mancata, di una programmazione inefficace soprattutto nel campo energetico e delle infrastrutture, di un disinteresse verso la necessità di rendere il mercato veramente competitivo.
E in questa situazione il ruolo del sindacato potrebbe in prospettiva essere tentato di svolgere un ruolo di supplenza della politica, rivolgendo allo Stato quelle rivendicazioni a cui i “padroni” non possono più rispondere. Oppure di chiudersi nell’effimera difesa dell’esistente con un sostegno alle garanzie formali ormai palesemente inefficaci di fronte all’onda lunga del cambiamento: in un anno si sono persi 800 mila posti di lavoro mentre il sindacato era impegnato a difendere la linea del Piave dell’articolo 18.
Le trasformazioni del mondo del lavoro sono tutt’altro che terminate e anzi nei paesi industriali, come l’Italia, potranno essere in futuro anche più rilevanti di quanto lo siano state finora. Perché è la stessa logica dell’organizzazione delle imprese a richiedere nuovi modelli contrattuali, è la stessa esigenza di guadagnare competitività che impone formule capaci di migliorare la produttività e quindi di sfruttare intensamente l’innovazione, di trovare impostazioni che garantiscano forti motivazioni e capacità di partecipazione.
“E’ auspicabile”, scrive Cassieri, “anche una capacità di rappresentanza più aperta e inclusiva, che consenta di parlare a tutti, imparando quindi a interpretare e a dare risposte non solo a un lavoratore-tipo (come l’operaio generico degli anni d’oro), ma assumendo la pluralità, anche personale, delle esperienze lavorative e dei punti di vista che ne derivano come una risorsa cui attingere”.
Tutto questo è possibile tuttavia se si scopre nel sindacato la volontà di assecondare, valorizzando i punti positivi e limitando quelli negativi, il processo di cambiamento nella società. Ma questo vorrebbe dire mettere in soffitta le vecchie strategie dello sciopero (ogni tanto anche generale) e fare propria quella logica della responsabilità sociale che non deve essere solo delle imprese, ma di tutte le parti sociali.
Agli eredi del vecchio movimento operaio è richiesto in pratica un salto di qualità: perché è ora necessario passare dalla difesa del posto di lavoro alla valorizzazione della persona in tutte le sue componenti, con un’attenzione alle dinamiche che possano far crescere la società puntando a dare sostanza (e risorse) alle garanzie reali al posto di quelle formali. Garanzie di reddito e di dignità, garanzie di formazione e di affiancamento. Perché nel 2025 non si arrivi legati al passato, e quindi con un inevitabile declino, ma con una società in cui anche le rappresentanze, sindacato compreso, costituiscano un fattore dinamico di libertà.