Di ricette per la crescita si parla ormai da anni. L’Italia ne avrebbe avuto bisogno già alla fine del secolo scorso quando, a fronte di ritmi di sviluppo molto forti in (quasi) tutti i paesi industrializzati, i risultati messi a segno erano anno dopo anno più che deludenti. E invece più che curare la febbre si è lasciato che il malato prendesse un’influenza cronica.



1) Il problema era la scarsa competitività per il carico fiscale troppo alto: ebbene negli ultimi vent’anni la pressione del fisco non ha fatto altro che salire. Tra il 2000 e il 2012 il centro-destra è stato al Governo (Berlusconi-Tremonti) per otto anni e ha aumentato le tasse di 156 miliardi. Il centro-sinistra (Prodi-Padoa Schioppa) ha governato per due anni sufficienti comunque ad aumentare le tasse di 52 miliardi. In un solo anno, infine, il Governo Monti ha aumentato le tasse di altri 20 miliardi.



2) Il problema era la spesa pubblica: ecco che le uscite dello Stato sono passate dai 536 miliardi del 2000 agli 805 miliardi del 2012, con un debito pubblico che è cresciuto negli stessi anni da 1.300 miliardi a oltre 2.000. Tutti i Governi hanno fatto salire la spesa, il centro-destra, tuttavia, più rapidamente degli altri.

3) Il problema era il sostegno alle imprese: e così, invece di appoggiare con forza le esportazioni, si è prima chiuso e poi riaperto l’Ice (Istituto per il commercio estero) e solo negli ultimi anni si è tentato di mettere le basi per un’efficiente diplomazia economica.



Si può dire che negli ultimi vent’anni, al di là delle parole, in Italia si è fatto troppo poco per la crescita con le risorse interne sparse nei mille rivoli di una spesa pubblica in gran parte improduttiva.

E allora può venire la tentazione di prendere spunto dalle esperienze di altri Paesi, magari lontani che possono, se non costituire un modello, almeno indicare una strada e sollecitare una strategia diversa da quella degli ultimi inconcludenti anni. È il caso della Corea, la cui forte crescita economica degli ultimi decenni è raccontata con precisione da Andrea Goldstein, ricercatore dell’Ocse (“Il miracolo coreano”, Ed. Il Mulino, pagg. 212, € 16), in cui oltre a raccontare i successi di Seul viene spiegato anche il miracolo al contrario della Corea del Nord e si offrono alcuni spunti di riflessione su quello che da italiani potremmo imparare.

Certo, lo sviluppo della Corea non è tutto rose e fiori per il protezionismo interno, le forti disuguaglianze, il gravissimo inquinamento ambientale, ma ci sono almeno tre fronti che possono essere significativi.

Il primo, la grande partecipazione popolare: la Corea è forse l’unico Paese in cui i lavoratori abbiano indetto uno sciopero per alzare l’età della pensione. Il secondo, una fortissima attenzione alla scuola, all’istruzione, alla formazione. Il terzo, una stretta collaborazione tra pubblico e privato, con obiettivi comuni e procedure chiare e trasparenti. Goldstein fa l’esempio del settore alimentare, per il quale il governo ha varato un grande piano per promuovere la cucina coreana nel mondo e per realizzare nel Paese centri di ricerca di livello mondiale. L’obiettivo, quasi temerario, è quello di fare del samgyeopsal, una specie di pancetta, un alimento diffuso in tutto il mondo così come la pizza, il kebab o l’hamburger.

Ma oltre alla cucina, che può essere considerata comunque un simbolo dell’intraprendenza coreana, le altre lezioni per l’Italia riguardano la scuola, le dimensioni d’impresa, la politica economica. In pratica, ridare dignità agli insegnanti, agli imprenditori, ai politici. Purché facciano la loro parte e partecipino costruttivamente al gioco di squadra.