Volete la dimostrazione di come l’economia sia una scienza tutt’altro che esatta? Basta guardare alla lista dei premi Nobel assegnati fino a oggi dal 1969, quando il premio venne istituito per volere della Banca di Svezia. Anche se 50 su 76 provengono dal mondo anglosassone, ce ne sono di tutti i tipi. Non solo liberisti e keynesiani, ma anche matematici e personalisti, finanziari e aziendalisti, monetaristi e fautori dell’intervento pubblico. Anzi, quasi alla ricerca di un equilibrio impossibile, il Comitato per l’assegnazione dei premi ha spesso alternato economisti di tendenze completamente opposte. Come quando dopo aver premiato nel 1987 Robert Merton e Myron Scoles, per il loro metodo di misurazione dei derivati (e pochi mesi dopo vennero coinvolti nel colossale fallimento della Ltcm), si sentirono in dovere di premiare l’anno successivo una personalità come l’indiano Amartya Sen per i suoi studi sull’economia del benessere. O come quando nel 1974 decisero di riequilibrare immediatamente il premio per Friedrich von Hayek assegnandolo anche allo svedese Gunnar Myrdal, di tendenze nettamente opposte rispetto all’economista austriaco.

Roberto Fini, presidente per l’Italia dell’Associazione europea per l’educazione economica, ha così pensato sapientemente di leggere l’economia attraverso le designazione del premio Nobel. Ne è nato un libro (“Economisti da Nobel”, Ed. Hoepli, pagg. 250, € 16,90) che costituisce insieme un viaggio nelle teorie economiche e una guida per capire che non si può chiedere all’economia quello che l’economia non può dare, cioè una soluzione sicura e semplice a problemi complessi. Perché se è vero che non ci sono soluzioni facili di fronte a problemi come quelli che stiamo vivendo, è altrettanto vero che esistono infinite soluzioni sbagliate o meglio infinite strade sbagliate che portano a effetti opposti a quelli desiderati.

Perché in fondo l’economia è più un modo per conoscere la realtà che per risolverne i problemi. “Conoscere il metodo economico – sottolinea Fini – può essere un buon antidoto per evitare errori di valutazione e per ridurre il rischio di far prevalere comportamenti basati esclusivamente su ciò che per istinto sembra il modo di operare più adeguato, ma che non sempre si dimostra tale”.

Ma c’è un’altra particolarità da sottolineare nel libro. Roberto Fini apre infatti il racconto spiegando perché alcuni grandi economisti non hanno ricevuto il premio Nobel. Si deve ricordare che il premio viene assegnato solo ai viventi e quindi non poteva certo essere assegnato, per esempio, a John Maynard Keynes, morto nel 1946. Ma economisti vivi e operanti nella seconda metà del Novecento, come John Kenneth Galbraith e Joan Robinson, hanno lasciato un segno ben più significativo nella storia dell’economia di quello di molti premiati che hanno avuto i loro cinque minuti di notorietà solo al momento del premio. La commissione del Nobel forse ha temuto di sbilanciarsi troppo dato che la Robinson era considerata troppo keynesiana e Galbraith più divulgatore che teorico.

In effetti, forse per vicinanza agli analoghi premi per la fisica o la chimica, emerge che gran parte degli economisti premiati hanno avuto una formazione matematica-quantitativa e hanno elaborato teorie e modelli basati più sulle equazioni che sulle motivazioni più o meno irrazionali. Le eccezioni appaiono proprio come tali come nel caso del citato Amartya Sen o di Daniel Kahneman, economisti più in una prospettiva sociale il primo e psicologica-comportamentale il secondo. Ma proprio queste eccezioni in fondo permettono al premio Nobel per l’economia di avere ancora una significativa dignità.