La recessione economica, preceduta in Italia da un lungo periodo di sostanziale stagnazione, ha portato drammaticamente d’attualità il tema della sostenibilità della spesa pubblica, in cui le spese per lo “stato sociale” sono uno dei capitoli più importanti. Di necessità di riforma delle pensioni si è parlato periodicamente negli ultimi decenni. Qualcosa si è fatto per correggere gli squilibri più evidenti, iniziando con la Riforma Dini del 1995, che ha impostato un lungo cammino per rendere l’ammontare delle pensioni più aderenti ai contributi versati, e arrivando alla Riforma Monti-Fornero con il passaggio completo al regime contributivo e un drastico innalzamento dell’età pensionabile.



Possiamo dire che sono stati risolti tutti i problemi? E che il sistema è in grado di sostenere l’evoluzione sociale dei prossimi anni? La risposta è tristemente negativa per una serie di ragioni. La prima è che la diminuzione delle nascite e l’innalzamento della vita media metteranno sempre più a dura prova gli equilibri finanziari dell’attuale modello di welfare. La seconda ragione è che il livello di disoccupazione, in particolare giovanile, non appare a medio termine in diminuzione. La terza ragione è che le soluzioni finora adottate, e ancora oggi prospettate, guardano soprattutto all’aspetto degli equilibri finanziari senza mettere in discussione la logica del sistema.



Il modello italiano di welfare avrebbe invece bisogno di una rivoluzione culturale per raggiungere una serie di obiettivi che darebbero anche ossigeno alla crescita economica. Ben poco è stato fatto negli ultimi anni per rimediare a quella distorsione che è riassunta nello slogan “tanto ai padri, troppo poco ai figli”: è vero, le pensioni, soprattutto quelle future, sono state progressivamente ridotte, ma non risulta che siano per nulla aumentate le spese per le famiglie numerose, per l’occupabilità dei giovani, per il lavoro femminile.

Si può considerare un sostanziale fallimento anche l’avvio della previdenza complementare: nella grande maggioranza dei casi le posizioni dei lavoratori si sono limitate al semplice trasferimento di parte dei fondi del tfr senza grande convinzione e motivazione. Sullo sfondo è rimasta sempre l’idea che è lo Stato a dover garantire (e in ogni caso) adeguante prestazioni sociali, mettendo costantemente in secondo piano gli interventi che, in una logica di sussidiarietà, potrebbero invece derivare da un più ampio coinvolgimento sociale.



Lo rileva, dopo un’attenta analisi dei temi dello stato sociale, Chiara Saraceno nel suo libro “Il welfare” (Ed. Il Mulino, collana Farsi un’idea, pagg. 136, € 9,80). Con una prospettiva in cui le pensioni sono solo una parte del sistema e in cui l’intervento dello Stato è rivolto soprattutto alla valorizzazione del capitale umano in tutte le sue forme. “A differenza del neoliberismo – scrive Saraceno nelle conclusioni – l’approccio dell’investimento sociale è più consapevole di contrastare e compensare i fallimenti del mercato e ha, per questo, un’immagine più positiva dell’intervento dello Stato. Include anche una visione ottimistica della possibilità di conciliare equità, efficienza e crescita, enfatizzando i benefici economici che deriverebbero alla società dall’investimento in capitale umano”.

Si parla allora di investimenti per i servizi educativi in età pre-scolare e per la prima infanzia, e collegati a questi (come avviene nei paesi nordici) una più ampia partecipazione delle donne al mondo del lavoro con effetti positivi anche sui tassi di crescita demografica.

È evidente che un sistema di welfare rigido come quello italiano, fondato sulla tutela assoluta del lavoro dipendente e garantito, non può che avere forti difficoltà all’interno delle profonde trasformazioni sociali che stiamo vivendo. Ma senza un cambiamento di prospettiva le tradizionali formula statalistiche rischiano di trasformare il Paese in un fortino assediato che consuma tutte le proprie riserve e non sa puntare sulle forze che possono costruire il futuro: i bambini e le famiglie.