Lo dicono i fondamentali: la fiducia è un elemento basilare della dinamica economica. Lo possiamo verificare ogni volta che compiamo un atto che abbia anche una minima valenza economica. È la fiducia che il pezzo di carta chiamato banconota abbia veramente il valore stampato su di esso. È la fiducia che il negoziante ci venda un prodotto garantito e non adulterato. È la fiducia sul fatto, fondamentale, che i patti vengano rispettati e che gli impegni vengano mantenuti. Ma c’è una fiducia meno concreta e definibile. È la fiducia nel futuro, quella valutazione delle scelte che possiamo compiere e che facciamo dipendere da quello che, di buono o di cattivo, pensiamo possa accadere.

Nell’economia di oggi gli indici di fiducia hanno ormai più importanza di quelli tradizionali, come il Pil. Per una ragione molto semplice: la fiducia misura il futuro, il Pil misura il passato. E tutti noi chiediamo all’economia più di prevedere quello che avverrà che di spiegare quello che è già avvenuto. Ma non dobbiamo nasconderci che uno degli effetti della globalizzazione, cioè del vivere in società sempre più allargate, è proprio quello di rendere più difficili e complesse quelle relazioni dirette da cui la fiducia può trovare più forti radici.

Il destino delle società moderne, aperte e ormai ampiamente integrate nel loro ambiente locale, nazionale e globale – scrive l’economista francese Eloi Laurent (L’economia della fiducia, Ed. Castelvecchi, pagg. 132) -, è in effetti di mettere in contatto l’uno con l’altro un numero sempre crescente di individui che non si conoscono affatto e devono tuttavia entrare in relazione nel quotidiano. Questa incertezza sociale si è ulteriormente intensificata nel corso degli ultimi decenni con l’importanza crescente acquisita dalle tecnologie dell’informazione e dell’economia dell’immateriale, a causa delle quali i contatti diretti tra gli esseri sono meno frequenti e i prodotti scambiati meno tangibili, mentre il ritmo delle transazioni non smette di accelerare”.

La complessità avvolge così anche le relazioni tra le persone, ma soprattutto stravolge i ritmi tradizionali, in qualche modo garantiti, che contrassegnavano la società del passato. C’è un’instabilità di fondo che arriva a coinvolgere il posto di lavoro, le relazioni personali, i legami familiari. Non può essere una sorpresa il fatto che una realtà di questo tipo provochi cambiamenti anche profondi nelle scelte individuali: ci si sposa di meno (e più tardi), si divorzia più spesso e inevitabilmente diminuisce la volontà di costruire una famiglia stabile e mettere al mondo dei figli.

È una dimensione di cui bisogna aver coscienza se si ritiene che sia non solo utile, ma indispensabile, rimettere in moto una dinamica sociale ed economica che, guardando con maggiore fiducia al futuro, faccia ripartire le decisioni di spesa, e quindi di consumo, ma soprattutto quelle di investimento, come di fatto sarebbero quelle legate a una ritrovata crescita demografica.

Ma la fiducia, direbbe don Abbondio, uno non se la può dare. E tuttavia la fiducia è anche una responsabilità sociale, una dimensione in cui la politica gioca un ruolo fondamentale, anche se ovviamente non esclusivo. Peccato che la politica parli d’altro rispetto a questi temi che sono il fondamento del nostro futuro.