Quasi come una maledizione della storia, ormai regolarmente l’Italia tende a essere ineguagliabile nell’arte del farsi del male da sola. Le ultime vicende del Monte dei Paschi di Siena sono la dimostrazione di come un legame viziato tra politica e finanza possa condurre a mettere a repentaglio patrimoni costruiti in secoli di operosa attività. Ma il caso Mps non è isolato. Negli ultimi decenni molti istituti di credito hanno evitato il fallimento solo grazie agli interventi salvifici di banche più grandi e meglio gestite.
E tra questi il caso probabilmente più clamoroso è quello della Banca commerciale italiana, considerata fino all’inizio degli anni ‘90 come una banca esemplare per gestione interna e credibilità internazionale e poi vittima insieme di una privatizzazione (“molto privata”, come l’ha definita uno degli ultimi presidenti, Sergio Siglienti) e di un processo di progressiva involuzione fino al completo assorbimento da parte di Banca Intesa.
La storia della Comit fino agli anni del declino è stata accuratamente ricostruita dal prof. Carlo Brambilla, docente di storia economica all’Università dell’Insubria, in un libro (“La sfida internazionale della Comit”, Ed. Il Mulino, pagg. 312, euro 30) che si avvale anche di interventi di Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e Andrea Manzella, mentre sulla privatizzazione resta di estrema attualità il libro citato di Siglienti scritto a caldo nel 1996.
Brambilla mette in luce le speranze tradite di creare una grande banca di spessore internazionale, cosa che sarebbe avvenuta se fosse andata in porto l’acquisizione dell’americana Irving con un’operazione che aveva già perfezionato tutti i particolari manageriali e finanziari, ma che si è bloccata per motivi squisitamente politici: la strenua difesa dell’americanità da parte della Fed, in aperta contraddizione con lo spirito liberale della società Usa, a cui ha fatto da contraltare l’inesistente appoggio politico da parte dell’Italia.
La Comit gettava la spugna nella vicenda Irving nell’agosto del 1988, vedendo profondamente indebolita la propria credibilità internazionale nello stesso periodo in cui crescevano le difficoltà sugli altri fronti, in particolare per la costosa e poco redditizia presenza in America Latina. Poi, agli inizi degli anni ’90, è venuta una privatizzazione decisa e attuata in tempi stretti dal potere politico, ma pilotata dietro le quinte dalla Mediobanca di Enrico Cuccia che non voleva perdere uno degli snodi essenziali per garantire i flussi finanziari ai grandi gruppi industriali. Come afferma Siglienti, “i vincoli di solidarietà hanno avuto la meglio sull’interesse collettivo”, dove i vincoli di solidarietà sono in fondo quell’economia di relazione, quella politica dello scambio di favori, quella strategia della conservazione degli assetti di potere che ha bloccato e continua a bloccare la dimensione del merito e della competenza.
E la vicenda del Monte dei Paschi, pur con modalità e scenari diversi, si inserisce comunque in questa dimensione. Dove vi è stata peraltro, oltre che una gestione perlomeno imprudente della banca, anche una violazione se non della lettera, sicuramente dello spirito della legge che nel 1990 ha avviato la privatizzazione delle casse di risparmio con la creazione delle fondazioni bancarie. Infatti, mentre gran parte delle fondazioni (ne è un esempio la Fondazione Cariplo) hanno gradualmente dismesso le loro quote nel capitale delle banche diversificando il proprio patrimonio e cercando di continuare soprattutto la presenza sociale, la Fondazione di Siena ha difeso e continua a difendere la propria quota di controllo della banca ed è arrivata a indebitarsi pur di non veder diminuire il proprio potere.
Una politica disattenta e disinteressata ha portato al declino di una banca come la Comit, una politica pervasiva e possessiva ha portato alla crisi ancora tremendamente complessa del Monte dei Paschi. Due dimostrazioni di come l’Italia abbia ancora grandissime difficoltà a essere un Paese “normale”.