C’è un ‘industria in Italia che continua a crescere anche in questi anni di crisi, anzi forse proprio spinta dal disagio sociale provocato dalle difficoltà economiche: è l’industria del gioco, delle macchinette mangia-soldi che hanno sostituito i vecchi juke-box dai locali pubblici, dei gratta e vinci che tappezzano ogni tabaccheria, del gioco del lotto che ha ormai sposato i sistemi informatici, delle sale scommesse in cui è possibile puntare su tutti gli avvenimenti non solo sportivi.
È un’industria che è diffusa ormai su tutto il territorio e che garantisce guadagni sicuri solamente a chi la controlla. È un’industria che è cresciuta sotto l’ombrello protettivo dello Stato con la finalità teorica di creare un’alternativa trasparente e controllata al gioco clandestino, ma con il risultato pratico di offrire nuove opportunità di infiltrazioni malavitose oltre che, drammaticamente, di aprire le porte alla ludopatia, al gioco d’azzardo patologico che diventa una vera e propria malattia.
Nel 2000 il fatturato dell’industria del gioco era di “appena” 14,3 miliardi. Oggi si arriva a 90 miliardi senza calcolare il gioco illegale che nonostante tutto è rimasto. Sono cifre che compaiono nel libro di Umberto Folena (“L’illusione di vincere, il gioco d’azzardo emergenza sociale”, Ed. Ancora, pagg. 128, € 13) che afferma: “Oggi l’azzardo è la terza azienda italiana dopo Eni ed Enel. Tanto denaro che dovrebbe rimpinguare le casse dello Stato, ma non è così. […]. Siamo al primo posto in Europa e al terzo nel mondo. Siamo strapieni di slot machine, ben 400mila, una ogni 150 abitanti, con una densità seconda solo all’Australia”.
E gli effetti di questa diffusione si vedono: “ Non meno di 500mila in Italia – scrive Folena – sono i dipendenti patologici dal gioco d’azzardo, i ludopatici. Ognuno di loro è un caso sociale, che coinvolge pesantemente anche le rispettive famiglie. Oltre un milione e mezzo le persone a rischio”. L’incasso per lo Stato non è irrilevante, circa 8 miliardi di euro all’anno, ma i costi sociali e sanitari del gioco d’azzardo ammontano ad almeno 6 miliardi. E comunque se i poco meno di 20 miliardi di euro persi al gioco in Italia annualmente fossero impiegati in attività produttive, lo Stato incasserebbe altri 4 miliardi”.
Folena, giornalista di Avvenire, ha il pregio di raccontare questo drammatico fenomeno sociale anche attraverso i casi concreti delle persone che, per le vicende della propria vita, si sono trovate incapaci resistere alla spirale del gioco. Ma quello che era la normalità della vita quotidiana qualche decennio fa, come la schedina del Totocalcio o la cartella della tombola, è diventata una tentazione continua amplificata dalle enormi capacità dei computer e delle telecomunicazioni.
È così che ogni italiano “investe” ogni anno 1.260 euro per il gioco, mentre ne spende solo la metà per il risparmio previdenziale: “In altri termini – spiega Folena – ciò significa che ogni giorno gli italiani investono 1,8 euro per assicurarsi il futuro e ne giocano 3,5 per ingannare il presente, inseguendo il miraggio di vincite capaci di cambiare la vita”.
Per arginare questo fenomeno non mancano iniziative politiche e soprattutto dei sindaci che in molti casi sono riusciti a porre severe condizioni per l’installazione dei videogiochi o l’apertura di nuove sale, ma sono significative anche le campagne di sensibilizzazione che hanno preso vita negli ultimi mesi. Ne parla l’economista Leonardo Becchetti nell’introduzione al libro spiegando la campagna “slot mob” con cui 90 organizzazioni della società civile hanno premiato pubblicamente i bar che hanno deciso di togliere le slot machine dal proprio locale.
Il gioco ha bisogno di ritornare a essere un gioco, un divertimento che non crei dipendenza o spirito compulsivo. E capace di offrire momenti di gioia, mentre c’è solo tristezza negli occhi che inseguono le bandierine colorate di una tecnologica macchinetta mangiasoldi.