Non potevano mancare, a venticinque anni dalla caduta del muro di Berlino, le celebrazioni di un evento che non ha cambiato solo la storia della Germania, ma ha segnato una svolta per l’intera politica internazionale. Come giustamente afferma Valerio Castronovo nelle prime righe del suo ultimo libro (La sindrome tedesca – Europa 1989-2014, Ed. Laterza, pagg. 300, euro 24) quei colpi di piccone che diedero il via alla riunificazione della Germania “segnarono anche il preludio del crollo dell’impero sovietico e posero perciò ai paesi euro-occidentali problemi altrettanto rilevanti che di impatti immediato a cui erano assolutamente impreparati”.

Il terremoto politico nell’Est Europa creò infatti in pochi mesi una situazione completamente nuova con la Germania in prima linea per gestire un processo di riunificazione che non era praticamente mai stato preso in considerazione come prospettiva politica a breve termine. Nello stesso tempo l’Unione europea si trovava ad affiancare il processo di consolidamento interno, con l’avvio degli accordi per la moneta unica, alla necessità di rispondere alle richieste di avvicinamento e poi di adesione provenienti dai paesi dell’Est.

In questa prospettiva la Germania si è trovata da una parte ad affrontare lo sforzo maggiore per integrare i Lander dell’Est con le proprie strutture economiche e sociali e dall’altra ad assumere una maggior forza nell’indicare il cammino di un’Ue che non aveva avuto fino ad allora un Paese chiaramente egemone. Mentre infatti l’economia tedesca pre-unificazione era sostanzialmente paragonabile a quella di Francia, Italia e Gran Bretagna, dopo il 1989 sono cambiati rapidamente gli equilibri, anche perché Berlino, attraverso le riforme varate dal Cancelliere Schroeder all’inizio degli anni 2000, riusciva a dimostrare un forte dinamismo e una reale capacità di risposta alle esigenze della globalizzazione.

Nonostante questo la Germania non ha mai voluto trasformare questa egemonia in un’esplicita presa di possesso dei punti di comando a livello europeo. Certo, ha voluto che la sede della Banca centrale europea fosse a Francoforte, ma i tre presidenti che si sono avvicendati all’Eurotower sono stati un olandese (Wim Duisenberg), un francese (Jean Claude Trichet) e un italiano (Mario Draghi). E allo stesso modo il sostegno alla linea del rigore è venuto appoggiando di volta in volta finlandesi, polacchi e lussemburghesi piuttosto che esponenti dei paesi del Sud Europa.

C’è nell’attuale cammino europeo il rischio che questa posizione in fondo ambivalente della Germania possa sfociare nella costruzione di un nuovo muro di diffidenza all’interno di una costruzione europea messa a dura prova negli ultimi anni dagli effetti ancora pesanti della crisi economica. All’interno del mondo politico tedesco resta peraltro aperto l’interrogativo se il futuro dell’Europa possa essere quello di una vera unità politica oppure se con il tempo prevarrà nei fatti anche quell’Europa a due velocità che porterebbe con sé anche la divisione in due della moneta unica.

Ed è significativa la conclusione del libro di Castronovo: “Rimane da chiedersi – afferma lo storico – se la classe dirigente tedesca sia in grado di svolgere un ruolo effettivo di guida e di leadership, in funzione di un sistema europeo più coeso e compatto. Perché ciò comporta, per la Germania, l’assunzione di determinate responsabilità politiche e una capacità di visione complessiva, coerente e lungimirante”. Visione che non è certamente né scontata, né facile.