Sul fronte delle opere pubbliche la storia italiana degli ultimi anni è la dimostrazione di una grande regola: non basta realizzare importanti infrastrutture, bisogna anche utilizzarle bene. E la stessa storia è una grande album di occasioni perdute. Se guardiamo una carta geografica vediamo che l’Italia è al centro del Mediterraneo, è il collegamento ideale dell’Europa con l’Africa e soprattutto con l’Oriente, è un potenziale e ineguagliabile punto logistico per lo smistamento delle merci oltre che un grande polo di attrazione per i flussi turistici.

Ma se sovrapponiamo alla carta geografica i tracciati delle navi commerciali (per esempio con www.marinetraffic.com) possiamo vedere che molti mercantili che dall’Oriente attraversano il Canale di Suez non si dirigono ai porti italiani, ma marciano spediti verso lo stretto di Gibilterra per poi raggiungere il porto di Rotterdam, di gran lunga il primo porto europeo. Ma ancor più paradossale è il fatto che una parte dei container trasportati da queste navi vengono a Rotterdam caricati sui treni che valicano le Alpi e raggiungono l’Italia.

Non c’è nessun interesse particolare, nessuna lobby che spinge gli spedizionieri a scegliere la strada più lunga. C’è una valutazione economica e c’è soprattutto la ricerca della sicurezza sui tempi di carico/scarico e di sdoganamento. Come racconta Beniamino Pagliaro, giornalista dell’Ansa, nel libro “Senza rete” (ed. Guerini e associati, pagg.140, € 20): “Il Propeller Port Club di Milano ha calcolato che le imprese dell’area milanese spediscono ogni anno circa mezzo milione di container attraverso i porti del Nord Europa. Genova è a 130 chilometri, ma Rotterdam, Amburgo e Anversa sono più affidabili”.

Sui porti italiani pesano i tempi incerti e le complessità della burocrazia oltre che il perenne rischio di scioperi improvvisi che possono ritardare anche di settimane le consegne. Poi nei porti, così come negli aeroporti, è prevalsa costantemente la logica del campanile più che la concentrazione degli investimenti su pochi e ben definiti punti logistici. E così Savona è in concorrenza con il porto di Genova, il qual a sua volta deve guardarsi della concorrenza di La Spezia, il quale peraltro è a poca distanza da Livorno: dalle 24 autorità portuali, teoricamente autonome, ma tutte dipendenti dalle nomine politiche, non ci si può certo attendere un piano unitario strategico per il sostegno dei traffici via mare.

E se passiamo dal mare al cielo la panoramica non è meno disarmante. L’Italia è un Paese dai cento aeroporti che riesce a complicare anche le cose più semplici. Nel 2003, spiega Pagliaro, il 66% dei passeggeri negli aeroporti italiani viaggiava con Alitalia, dieci anni dopo la quota si è dimezzata: “I consumatori non sono stupidi, non scendono in piazza, non protestano: semplicemente scelgono”. Ed è stata la stessa strategia italiana sulla gestione di quella che era la compagnia di bandiera e degli aeroporti a spalancare le porte alle compagnie straniere, più o meno low cost. “Il caso Linate-Malpensa – si legge in un rapporto European House Ambrosetti citato nel libro – rappresenta un esempio di miopia strategica in cui le logiche devianti dell’interesse generale hanno radicalmente modificato quello che alla base si configurava come un piano strategico industriale per creare, all’alba del 2000, il quarto hub intercontinentale europeo”.

Le vicende degli aeroporti milanesi sono l’ennesima dimostrazione di come gli italiani siano ineguagliabili nell’arte di farsi del male da soli: Linate avrebbe dovuto essere il city-airport per la navetta Milano-Roma, è invece diventato il comodo punto di partenza per raggiungere gli aeroporti di Parigi, Francoforte, Londra, Madrid e da questi il resto del mondo, ovviamente con le compagnie degli altri paesi. Le scelte di Alitalia hanno messo in difficoltà gli aeroporti milanesi, ma questi hanno a loro volta fatto di tutto per mettere in difficoltà Alitalia. Tristemente si può dire che c’è del metodo anche nel favorire il declino del sistema economico.