Finalmente qualcuno ha trovato il coraggio di riabilitare Adam Smith: il grande ideologo del liberismo, l’inventore della mano invisibile che guiderebbe automaticamente il mercato verso la massima efficienza, il profeta della ricchezza delle nazioni che nascerebbe tutta dal fatto che ognuno persegue i propri interessi individuali.
Quante volte abbiamo sentito ripetere l’esempio del birrario, del fornaio o del macellaio che ogni giorno ci forniscono birra, pane e carne non per la loro benevolenza o generosità, ma solamente perché ognuno di loro desidera ottenere il massimo profitto possibile.
Ma Adam Smith poneva questo storico esempio come una tappa, importante, ma solo una tappa, della sua analisi sociale prima che economica. Perché anche questa corretta analisi può essere vista in un’altra dimensione se si tiene conto dei fondamenti su cui si fonda il pensiero dell’economista scozzese. E questi fondamenti si trovano nella precedente, ma non meno importante, opera di Smith La teoria dei sentimenti morali.
Lo mette in rilievo con chiarezza Lester M. Salamon della Johns Hopkins University, nella postfazione del libro La società generosa di Pier Mario Vello e Martina Reolon (Ed. Feltrinelli-Vita, pagg. 256), un libro in cui si traccia con molta concretezza e coerenza un percorso di virtù civili per affrontare i temi della crisi e della disuguaglianza. Ebbene Salamon, esperto del terzo settore, ricorda come Smith considerasse un presupposto essenziale alla corretta dinamica delle forze del mercato il fatto che i protagonisti, cioè le persone, siano animati da un sentimento chiamato “mutua simpatia”. E infatti scrive: “Per quanto egoista si possa presumere l’uomo ci sono chiaramente dei principi nella sua natura che lo coinvolgono nella fortuna degli altri e gli rendono necessaria la loro felicità, sebbene egli da essa non ricavi nulla tranne il piacere di osservarla”.
E Salamon così commenta: “La recente turbolenza del mercato, abbinata a una preoccupante crescita della disuguaglianza, ha progressivamente evidenziato il costo che viene pagato per aver accolto l’idea della mano invisibile di Smith avendo tuttavia collettivamente dimenticato il sentimento morale della simpatia”.
In questa prospettiva l’analisi di Vello e Reolon ha la giusta ambizione di ricondurre ad unità innanzitutto la persona, che non può dividersi in due separando le motivazione economiche da quelle morali, e poi di mettere in rilievo come il mercato (che per sua natura è uno strumento e non può avere fini propri) possa funzionare meglio se all’economia dello scambio si unisce l’economia del dono.
È questo in fondo il grande passo avanti compiuto nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI dove si sottolinea come il dono non sia un elemento ai margini del mercato, quella che potremmo chiamare una scelta per salvarsi l’anima, ma possa e debba diventare un elemento che offre forza e dinamismo al mercato stesso.
Ma la generosità non deve essere considerata solo un sentimento individuale, perché può diventare una linea guida per un agire sociale capace di sollecitare l’azione attiva di una sussidiarietà responsabile. Allora il sistema legislativo, le regole delle imprese, la politica fiscale, le normative locali sono tutti elementi che possono essere indirizzati ad un sostegno concreto ad una filantropia che diventi normalità sociale.
Qualcosa si muove, sottolineano Vello e Reolon: “I segnali di rinnovamento che arrivano dalla filantropia, espressione laica della società civile, fanno sperare in un proseguimento del processo in corso, improntato alla cultura scientifica, all’attenzione prevalente al noi anziché all’io, e alla costruzione di un’etica universale basata sul riconoscimento”.