È ormai una visione condivisa il giudizio secondo cui la crisi che da sette anni colpisce, pur in maniera diversa, le economie industrializzate è strutturale, cioè una crisi che ha modificato in maniera sostanziale i rapporti economici e sociali. I motivi sono stati più volte messi in luce. Al di là delle derive speculative del sistema finanziario, che sicuramente hanno dato il colpo decisivo alla stabilità del sistema economico, vanno posti in primo piano i cambiamenti radicali portati dalla globalizzazione, dal calo demografico e dalla rivoluzione tecnologica.
La risposta della politica (e della società) è stata finora frammentaria e deludente. A livello generale si è fatto ben poco per regolamentare il sistema finanziario e ancor meno per porre un argine all’espansione degli strumenti più o meno speculativi. Basti pensare che il debito mondiale ha superato i 100mila miliardi di dollari, ben 30mila in più del livello raggiunto prima della crisi finanziaria del 2008.
Il debito è esploso perché i governi hanno tentato di rispondere alla crisi attraverso i meccanismi tradizionali di sostegno della domanda, dove possibile emettendo carta moneta o contraendo debiti, oppure entrambe le cose insieme come nel caso americano dove la Fed, la Banca centrale, ha continuato a stampare dollari per acquistare o titoli pubblici.
L’Italia, non potendo stampare moneta, ha seguito un’altra strada. Ha finanziato a debito gli ammortizzatori sociali che hanno mitigato gli effetti della disoccupazione (ed è stato un bene), ma non hanno minimamente migliorato le condizioni operative e competitive delle imprese. Ma non si è fatto nulla per “governare” la globalizzazione, non si è fatto nulla per contrastare il calo demografico, non si è fatto nulla per sfruttare i lati positivi della rivoluzione tecnologica.
E infatti non si sono viste politiche per aiutare l’internazionalizzazione delle imprese, non sono mai entrati in discussione sostegni concreti alle famiglie, sono rimasti marginali i sostegni alla ricerca e all’innovazione. Siamo fermi alla vecchie ricette per problemi del tutto nuovi. Salvo poi inseguire le chimere come il mito della decrescita o l’illusione di una svolta con l’abbandono dell’euro: ipotesi che creerebbero problemi enormemente più grandi di quelli che si vorrebbe risolvere.
Di tutt’altra logica è il richiamo alla frugalità, rivolto non solo alle persone, ma anche e forse soprattutto alle istituzioni e ai governi. Lo spiega molto bene Paolo Legrenzi, da psicologo oltre che da economista, nel suo ultimo libro (“Frugalità”, ed. Il Mulino, pagg. 142, € 12), un libro in cui si prende atto con realismo di come sia necessario superare la società dei consumi per andare verso una diversa utilizzazione della ricchezza. Ma attenzione, avverte Legrenzi, “questo non implica la decrescita economica, ma un nuovo indirizzo nell’uso dei soldi”, perché “in primis dobbiamo pagare i debiti invece di lasciarli alle prossime generazioni, poi dobbiamo contribuire al gusto di una vita di riflessione, di ricerca, migliorando i processi educativi e l’istruzione”.
In pratica proseguire sulla strada della produzione di ricchezza e di creazione di valore, ma con una grande attenzione a quello che si usa, salvaguardando il più possibile le risorse naturali e l’ambiente, e investendo sulla qualità della vita, sull’arte, sulla cultura, sul senso del bello.
La politica dovrebbe dare il buon esempio: eppure mai come negli ultimi mesi si è parlato della necessità di tagliare i costi della politica, ma per arrivare a risultati poco più che simbolici. Peccato.