Non è raro, anzi è sempre più frequente in questi mesi di intenso dibattito politico ed economico, sentire durissime prese di posizione contro l’economia fondata sul denaro, contro il sistema capitalistico, contro le politiche strettamente monetarie che non incidono sui meccanismi dell’economia reale e quindi in particolare sulla crisi e sull’occupazione. Le critiche sono sempre utili. E in questo caso mettono in risalto un problema certamente concreto: cioè quella separazione tra economia finanziaria ed economia reale, che è riconosciuta ormai da tutti come il principale elemento che ha provocato la crisi iniziata nell’estate del 2008 negli Stati Uniti.
Ma quello che stupisce è tuttavia il fatto che la grande maggioranza di coloro che puntano il dito contro la moneta poi propongono come soluzione, almeno per l’Italia, il ritorno alla lira. Con la stessa coerenza di chi sale in macchina dopo aver fatto una conferenza contro il traffico. Dato che tornare dalla lira all’euro sarebbe economicamente disastroso, tecnicamente impervio e politicamente assurdo, il rischio di polemiche come queste è quello di svilire insieme alla terapia anche la diagnosi, che pur ha molti elementi più che giustificati.
In questo caso la propaganda politica non rende un buon servizio non solo alla comprensione, ma anche e soprattutto alla soluzione dei problemi. Perché di problemi l’economia attuale ne ha e non sono pochi, ma è semplicemente una mistificazione pensare di affrontarli con qualche salto nel buio di ingegneria finanziaria. Lo ha ricordato molto chiaramente il card. Angelo Scola parlando nei giorni scorsi all’assemblea della Consob a Milano, di fronte quindi agli operatori dei mercati finanziari: “Cercare una uscita realistica e sostenibile dalla crisi – ha affermato l’Arcivescovo di Milano – richiede di riconoscere la necessità di superare un’idea di mercato che lo concepisce come un fatto, rigido, di natura invece che, come è realmente, un fatto di dinamica cultura. Concepito come un fatto di natura il mercato diventa luogo di relazioni anonime ed impersonali, perciò ultimamente indifferenti. Invece un affronto adeguato del rapporto etica/finanza richiede di partire effettivamente dai soggettiin azione all’interno del mercato e dalla fitta rete di relazioni mediante le quali ognuno potenzialmente incide sulla situazione di tutti gli altri”.
Come dire: il mercato, così come il denaro, è uno strumento creato dall’uomo in cui il protagonista è e deve continuare a essere la persona. E così se il denaro, soprattutto se usato male, può essere tra le cause delle difficoltà, non ci si può certo affidare alla medicina del denaro per uscire dalle secche. È significativa in questa prospettiva la storia del denaro raccontata dall’economista americano Felix Martin (“Il denaro”, ed. Utet, pagg. 320, € 17,50) che sintetizza così la tesi del libro: “Il denaro è un fenomeno sociale come il linguaggio; perciò l’idea che il sovrano, o la Banca centrale, controlli lo standard monetario di fatto è un mito. Non lo controlla più di quanto l’Oxford English Dictionary controlli il significato delle parole”.
E allora dobbiamo renderci conto che il sistema finanziario è stato solo il detonatore di una crisi che ha alle sue radici tre fattori molto concreti e reali: il calo demografico, la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione. È per il calo demografico che è caduta la domanda interna in paesi come l’Italia, è per la rivoluzione tecnologica che si riducono i posti di lavoro, è per una globalizzazione non gestita che sono andati in crisi interi settori economici.
Affrontare questi temi vuol dire attuare delle vere politiche di sostegno alle famiglie, rivoluzionare il sistema dell’educazione per formare giovani che sappiamo utilizzare appieno la società digitale, varare politiche economiche capaci di coniugare equità e sviluppo. Il motore dell’economia non è il denaro, ma la fiducia. E che fiducia potrebbe dare un Paese che volesse tornare alla propria moneta solo per svalutarla?