A furia di guardare il mondo con la prospettiva della politica, dell’economia, delle logiche di potere si rischia di perdere di vista quella che troppo sbrigativamente possiamo definire la banalità del vivere quotidiano. Eppure contano molto di più, nella costruzione della nostra personalità, gli incontri, le occasioni, i tanti piccoli avvenimenti che diventano esperienza e che formano i criteri di giudizio e il prevalere dei sentimenti. E molto spesso guardare al passato, ripercorrere le tappe della vita di ciascuno di noi, può far riscoprire le gioie e le fatiche, le vittorie e le rinunce, e, vi è da augurarsi, una grande capacità di valorizzare le circostanze e di adattarsi a un mondo che non si riesce a cambiare.
Gli anni Cinquanta del secolo scorso sono stati segnati da una grande rivoluzione sociale: la civiltà contadina ha lasciato il posto a una grande trasformazione industriale, le grandi città del Nord sono diventate un polo di attrazione per i figli della campagna, i vantaggi economici del lavoro in fabbrica o negli uffici hanno fatto premio sulle fatiche e sulle incertezze del coltivare la terra.
Si può guardare a queste trasformazioni con la prospettiva degli storici o dei sociologi, ma è altrettanto interessante riscoprire le storie personali, leggere la storia con gli occhi di chi l’ha vissuta. “La Pieve e la sua gente” (ed. Luoghi Interiori, pagg. 126, € 13) è un piccolo libro in cui Nino Smacchia, da quarant’anni ricercatore chimico a Milano, racconta il periodo della sua infanzia e della sua adolescenza fino alle scuole medie e superiori frequentate a Urbania. Per poi fare il salto e tuffarsi, nonostante l’opposizione della famiglia, nella grande città.
Un racconto autobiografico quindi fatto di piccole cose, del duro impegno quotidiano del lavoro dei campi, ma anche dei momenti di gioia spensierata come nelle feste di paese o all’arrivo delle bancarelle del mercato. Su tutto domina la Pieve, la parrocchia dove la domenica è davvero un giorno di festa e dove comunque si ritrova tutta la gente, anche i comunisti dato che “i loro vecchi teorizzavano che a messa bisognava andare, a patto che durante l’omelia si pensasse ad altro e non si ascoltasse quel che diceva il prete”.
C’è in questo racconto qualcosa di molto diverso dalla nostalgia. C’è la volontà di non perdere la memoria, anzi di tramandarla anche a chi di quegli anni e soprattutto di quel tipo di vita ha solo sentito parlare e nemmeno poi tanto. Anche perché quel mondo tra le campagne e le colline, con i poderi dove si confondevano le generazioni, con una povertà vissuta con grande dignità, è il mondo dove la solidarietà era un fatto naturale, così come le stagioni che segnavano la vita quotidiana.