Il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro soprattutto per i giovani, è la principale emergenza economica e sociale di questi anni di crisi. E se è facile indicare le cause che hanno portato a livelli intollerabili i numeri della disoccupazione è certamente difficile e complesso indicare i possibili rimedi per affrontare in maniera costruttiva questo problema. Anche perché all’origine non vi sono elementi di carattere congiunturale, elementi che possono essere contrastati con le ricette classiche della politica economica, ma vi sono modifiche strutturali, e quindi di lungo periodo, che hanno cambiato profondamente lo scenario della produzione e dei servizi.
Le tecnologie hanno progressivamente ridotto il numero di persone tecnicamente necessarie per uno stesso volume produttivo; la globalizzazione ha aperto le porte a beni e servizi realizzati a costi inferiori in altre parti del mondo; il calo demografico e l’innalzamento dell’età media della popolazione hanno ridotto la domanda (in modo particolarmente evidente in Italia), scoraggiando peraltro anche gli investimenti delle imprese.
Di fronte a questa realtà, che ha modificato le condizioni di fondo su cui si è basata la società dalla rivoluzione industriale al terzo millennio, diventa importante una riflessione capace di ricostruire i fondamentali dei rapporti economici rimettendo al centro la persona, con la sua identità, il suo valore culturale, i suoi bisogni essenziali insieme alle sue capacità e alla sua vocazione. Perché se il lavoro è considerato solo una merce è l’intera dinamica economica che non può che andare incontro a una sconfitta.
In questa direzione va la riflessione di Luigino Bruni nel suo ultimo libro “Fondati sul lavoro” (Ed. Vita e Pensiero, pagg. 160, euro 15). Bruni, docente di economia politica alla Lumsa, è coordinatore del progetto di Economia di comunione del movimento dei Focolari e promotore della Scuola di economia civile inaugurata lo scorso anno a Loppiano. Anche da queste esperienze nasce un percorso insieme critico e costruttivo che assume il carattere di una sfida alle tendenze negative dell’attuale sistema sociale: non solo il prevalere della finanza sull’industria, delle rendite sulla produzione, ma anche la perdita di dignità del lavoro manuale, l’avanzare delle relazioni virtuali sul quelle interpersonali, l’annebbiamento di concetti come quelli della festa, della bellezza, della felicità, del dono.
Contrastare queste tendenze non vuol dire sognare utopisticamente una società “angelica”, ma valorizzare proprio quegli strumenti, come il mercato o le imprese, che sono spesso posti sul banco degli accusati. Per fortuna molti imprenditori, scrive Bruni, “vedono nella loro impresa qualcosa di più di una macchina per far soldi: ci scorgono la loro identità e storia, il loro posto nel mondo, la stima e la riconoscenza dei propri concittadini, qualcosa di bello da raccontare a figli e nipoti”.
Si potrebbe parlare di etica della responsabilità, ma insieme della capacità di dare un valore all’impegno, di ricostruire la fiducia, di mettere in gioco insieme agli aspetti monetari (la giusta ricompensa) anche quegli elementi di gratuità che completano le forze del mercato. E “dire gratuità, afferma Bruni, vuol dire che un comportamento va tenuto perché è buono”.
Se questa è una strada per rendere più viva e dinamica la società, è anche questa la strada per affrontare i temi dell’occupazione in una società che ha bisogno di dare spazio anche ai lavori che non creano beni materiali, ma soprattutto beni relazionali: dai processi educativi all’assistenza agli anziani, dalla ricerca di base ai supporti logistici e operativi. Per questo è necessario trovare la strada per rendere più facile la creazione di ricchezza e di opportunità agevolando la nascita delle nuove imprese e la crescita di quelle piccole e medie. Ma anche attuando una redistribuzione che parta dal basso e che non si limiti a usare gli strumenti del fisco e dello Stato, strumenti che oltre certi livelli costituiscono altrettanti ostacoli alla dinamica imprenditoriale.