C’è stato un periodo, che continua (ahimè) a influenzare le strategie aziendali, in cui la parola d’ordine era: “creazione di valore”. Importata senza troppi scrupoli dai monumentali manuali di management americani, questa strategia è diventata per lungo tempo il termometro con cui misurare la capacità e l’efficienza dei dirigenti. L’obiettivo era uno solo: aumentare il valore dell’impresa, un valore espresso tuttavia quasi unicamente dalle quotazioni di borsa, dai dividendi pagati, dai guadagni finanziari realizzati. Un obiettivo da conseguire con ogni mezzo, ma soprattutto facendo prevalere le politiche di breve o brevissimo termine, tagliando costi e cedendo le attività meno redditizie, preferendo gli investimenti speculativi rispetto a quelli produttivi.
Negli anni ‘90 non c’era relazione di bilancio che non mettesse in luce la creazione di valore, non c’era programma di un nuovo amministratore delegato che non la mettesse al primo posto, non si passavano gli esami delle scuole di management se non professando la propria incrollabile fede in questo slogan. In verità ci sono state poche e illuminate eccezioni che si sono fatta strada sottolineando due elementi essenziali: da una parte la valenza etica della persona in tutti i suoi aspetti, dall’altra la responsabilità sociale che ogni impresa deve avere e che appare sempre più importante anche per valorizzare la reputazione e quindi la presenza e l’immagine sul mercato. La crisi iniziata nel 2008 è stata peraltro anche la drammatica dimostrazione della logica suicida delle imprese che spinte dalla finanza hanno finito per perdere autorevolezza e capacità competitiva.
È da salutare quindi come una luce di speranza chi cerca di portare all’interno delle strategie manageriali modelli basati sempre di più su di un valore che è quello della persona, della passione, dell’attenzione al lavoro di gruppo, della competenza e della motivazione. È in questa prospettiva che si può leggere un richiamo forte alla necessità di una nuova leadership come quello contenuto nel libro di Francesco Sansone “Leadership responsabile. Le dieci regole per essere leader nell’economia della conoscenza” (FrancoAngeli edizioni, pagg. 144), un libro che è un piccolo breviario dove si fanno a pezzi i luoghi comuni della gestione aziendale per indicare un percorso che attraverso il valore della persona offre all’impresa una prospettiva di lungo periodo.
Sono pagine che costituiscono una palese provocazione verso le regole auree dei manager all’americana. Il manager deve essere un duro? No, dice Sansone, la prima regola è quella dell’affabilità. E poi seguono le altre regole che potrebbero sembrare più adatte a un ordine monastico che a un’impresa industriale globalizzata: la generosità, la lungimiranza, il coraggio, l’ottimismo, la passione, la perseveranza, la speranza, l’umiltà e l’ottimismo.
Regole che connotano la volontà di rimettere in ordine le gerarchie all’interno di un’impresa capace di diventare un luogo dove attraverso l’organizzazione si valorizzano le competenze delle persone. L’efficienza, che pur deve esserci, non nasce da una regola matematica, ma dallo sviluppo continuo e per quanto possibile creativo della professionalità.
L’errore dei manager all’americana è stato (e in molti casi continua a essere) quello di ritenere che la redditività si possa ottenere con lo sviluppo di funzioni e di procedure e non, almeno di pari passo, con quella motivazione che nasce dall’essere ciascuno parte attiva dell’impresa. Ed è significativo che si parli già nel titolo del libro di “economia della conoscenza”: la conoscenza è la nuova prospettiva in cui si muovono le imprese, ma la conoscenza è anche una dimensione profondamente umana, dove il vero valore aggiunto è dato dalla persona.
È con questi strumenti che si devono, pur a fatica, ricostruire le imprese che le ormai vecchie teorie della creazione di valore hanno distrutto.