C’è stato un periodo, alla fine del secolo scorso, in cui sembrava che la Cina dovesse diventare la “fabbrica del mondo”, in cui delocalizzare impianti e linee di produzione sembrava una via obbligata per sopravvivere, in cui il futuro dell’Italia era immaginato come una grande Disneyland tutta concentrata sul turismo, sui servizi immateriali, al massimo su settori di progettazione come quello della moda e del design. La storia, per fortuna, ha preso un’altra direzione. Le delocalizzazioni produttive finalizzate a sfruttare i bassi costi del lavoro hanno rivelato tutti i loro limiti e sono rimaste solo quelle necessarie, quasi indispensabili, a produrre vicino ai mercati di sbocco.



La Cina si è confermata un grande concorrente, ma all’interno, fortunatamente per i cinesi, ha visto aumentare i costi del lavoro e migliorare le garanzie di sicurezza e di rispetto dei diritti dei lavoratori e nello stesso tempo è diventata anche un mercato sempre più aperto per le esportazioni europee e americane. Gli Stati Uniti hanno continuato, pur con qualche sobbalzo, nella loro crescita economica e, soprattutto, hanno riconfermato la loro leadership mondiale nel campo dell’innovazione, specie in quella dimensione che ha rivoluzionato i rapporti economici e sociali e cioè tutti i processi (e gli strumenti) legati a internet e alle telecomunicazioni.



In questo scenario l’Italia ha certamente subito i pesanti contraccolpi della crisi globale e ha perso, con una dura selezione darwiniana, più del 20% della propria capacità produttiva. Settori come quelli dell’auto, degli elettrodomestici, della metalmeccanica hanno dovuto subire un forte ridimensionamento, soprattutto in termini di quantità e, purtroppo, anche di occupazione. Ma quasi parallelamente e senza contraddizioni si è riscoperta la forza industriale dell’Italia, la validità del sistema dei distretti e delle Piccole e medie imprese, la capacità di innovazione applicata grazie alle nuove tecnologie.

È quello che emerge in un’analisi a vasto raggio nell’ultimo libro di Antonio Calabrò (“La morale del tornio, cultura d’impresa per lo sviluppo”, Ed. Egea, pag. 240, euro 16,50 – e.pub euro 8,99) in cui partendo dalla realtà di Milano, capitale della cultura d’impresa e delle grandi banche, dell’editoria e della comunicazione, della moda e del design, della manifatture e della ricerca, delle otto università e dell’Expo si realizza un viaggio alla scoperta dell’innovazione, della qualità, della ricerca, del capitale umano.

Il titolo nasce da una frase di Giulio Tremonti: “C’è più moralità in un tornio che in un certificato d’una banca d’affari” e il libro si sviluppa confermando il giudizio dello storico dell’economia Carlo Maria Cipolla: “L’Italia è un paese abituato a produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”. Ed è nella concretezza della realtà che si può avere la verifica di come “prodotti di qualità,  ben radicati nei valori del territorio, sono in grado di conquistare consumatori, altri produttori ed esigenti platee commerciali e industriali internazionali”. 

L’ispirazione di fondo è che parlare di “rinascimento industriale” non è per nulla una figura retorica, ma è insieme un dato di fatto e un obiettivo indispensabile. Un dato di fatto perché, come dimostrato per esempio dalle analisi della Fondazione Edison, il cuore dell’industria europea è condiviso dall’Italia del Nord e dalla Germania del Sud. Un obiettivo indispensabile perché solo con un’industria più forte e maggiormente capace di produrre ricchezza si possono raggiungere i necessari traguardi di equità e giustizia sociale.

L’industria può così essere la base di un nuovo paradigma di crescita dopo le illusioni della finanza, del post-industriale, della società dei servizi o dei divertimenti. L’industria vera, dove si esprime la creatività e la passione delle persone, dove è importante anche “come” si produce, dove si punta a realizzare il richiamo, opportunamente citato anche nel libro, di papa Francesco: “Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso”.