Negli anni ’80, dopo una delle tante crisi economiche che avevano colpito l’Italia, si iniziò a parlare di “questione settentrionale” con due ispirazioni di fondo: da una parte sottolineare come le grandi regioni industriali del Nord dovessero avere una maggiore attenzione da parte dei Governi, dall’altra contrastare un meridionalismo diventato quasi una professione, se non una moda intellettuale.



La “questione meridionale” era al centro del dibattito politico fin dai tempi dell’Unità d’Italia, cioè da quando diventarono evidenti le differenze e le distanze nello sviluppo tra Nord e Sud. Una distanza aggravata dal fatto che proprio l’unificazione non tenne conto delle differenze esistenti e attuò rapidamente le stesse norme, lo stesso sistema fiscale, le stessi leggi penali sul modello del Piemonte sabaudo. 



Nell’ultimo dopoguerra le disuguaglianze sono diventate ancora più evidenti. Il miracolo economico aveva trovato i suoi punti di forza nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova e aveva attirato migliaia di persone dal Sud con una migrazione interna che non è praticamente mai cessata. E nel Mezzogiorno si sviluppava una politica essenzialmente statalista fondata sui grandi complessi industriali presto classificati come “cattedrali nel deserto”.

Intanto tuttavia a livello politico e intellettuale si sviluppava una corrente di pensiero fondata sul meridionalismo, elaborata da grandi personalità politiche, ma sostanzialmente incapace di individuare le leve più adatte allo sviluppo. La politica industriale degli anni 80 era un misto di ambizioni programmatorie, di interventismo delle partecipazioni statali, di sussidi a pioggia anche alle iniziative più sgangherate. L’apertura a sinistra doveva essere sottolineata da un prevalere degli interessi della politica sulle logiche del mercato.



È in questo scenario, con un’Italia sempre più incapace di elaborare una politica capace di valorizzare le grandi potenzialità industriali, che le distanze tra Nord e Sud sono progressivamente aumentate. Al Sud i grandi complessi industriali sono diventati ruderi nel deserto e i poli di modernità, come la Fiat di Melfi e il distretto tecnologico di Catania, sono rimaste eccezioni, fatte salve le piccole esperienze imprenditoriali che sono riuscite a sfidare l’ostilità amministrativa e i controlli della criminalità. 

Al Nord si è imposta la strada del fai-da-te anche a livello industriale. Le ristrutturazioni hanno spazzato via le grandi fabbriche e il controllo di interi settori è passato a società estere. C’è tuttavia una miriade di “campioni nascosti” che riescono a essere leader mondiali in settori di nicchia e che mantengono la presenza manifatturiera a livello delle altre grandi aree industriali europee.

È tuttavia molto problematica la realtà del Settentrione così come la racconta Giuseppe Berta (“La via del Nord, dal miracolo economico alla stagnazione”, Ed. Il Mulino, pagg. 296, euro 18). È problematica perché la forza imprenditoriale non riesce a trasformarsi in progetto politico e perché – come scrive Berta – c’è “il rischio che le trasformazioni cui il Nord, come l’Italia, va incontro eccedano largamente le capacità indispensabili per governarle, con la conseguenza di veder dilapidato il patrimonio, privato e pubblico, accumulato durante due secoli di sviluppo economico”.

Resta il fatto tuttavia che è il valore aggiunto del Nord a tenere a galla l’Italia, è ancora il Nord ad attirare migliaia di giovani meridionali nelle sue università, è sempre il Nord a percorrere le vie dell’export da dove continuano a venire potenzialità di crescita. Ma ritornare a crescere è ora una grande questione italiana.