La disuguaglianza non è certo una virtù. È tuttavia un dato di fatto, un elemento della dinamica sociale, una condizione almeno in parte ineliminabile se si rispetta la diversità delle persone. C’è certamente un problema quando la disuguaglianza diventa eccessiva, quando offende la dignità delle persone, quando impedisce o blocca le potenzialità di sviluppo.
Il dibattito di questi ultimi mesi, anche sulla base di ricerche che dimostravano come l’attuale modello di sviluppo economico favorisse l’ampliamento delle disuguaglianze, ha avuto un tallone d’Achille nel mettere in secondo piano il fatto che comunque nel mondo ha continuato negli ultimi secoli a esserci una crescita sociale diffusa non solo a livello di ricchezza, ma anche e soprattutto nel campo della salute e di quella che viene chiamata la qualità della vita.
Proprio partendo dai dati sulle malattie e, di riflesso, sulla speranza di vita, l’economista scozzese Angus Deaton ha raccolto le sue esperienze di esperto di sviluppo e povertà nel libro “La grande fuga” (Ed. Il Mulino, pagg. 382, euro 28), in cui l’analisi cerca di andare oltre i tradizionali indicatori per guardare all’insieme della dimensione umana, nei suoi aspetti personali e sociali. È un’analisi storica di lungo periodo quella di Deaton: “Negli ultimi duecentocinquant’anni – scrive – abbiamo assistito a progressi senza precedenti, ma duecentocinquant’anni non sono un periodo di tempo molto lungo se messo a confronto con la sopravvivenza plurisecolare di alcune civiltà del passato, certe anch’esse di essere destinate a durare per sempre”. Le disuguaglianze possono così essere uno dei fattori di crisi dell’attuale modello economico, ma insieme a questo pericolo c’è la considerazione che la ricerca scientifica da una parte e l’analisi politica dall’altra possono molto più che nel passato garantire che le crisi non si trasformino in decadenza e declino.
È interessante notare come Deaton metta al centro della sua riflessione due temi, come quelli della salute e dell’innovazione agricola, che sono anche in primo piano nell’Expo 2015. L’evento milanese è stato finora descritto come un grande spettacolo, un’occasione per fare il giro del mondo in poche ore, un invito a considerare il cibo soprattutto per il piacere gastronomico e conviviale. Non sono mancate, certo, le riflessioni più profonde sui valori legati all’alimentazione, come nella presentazione del padiglione della Santa Sede (“Non di solo pane…”), così come il tema della condivisione e della necessità di approfondire un elemento centrale per lo sviluppo umano e sociale come appunto, quello dei fabbisogni alimentari.
Tra le righe dei commenti è emersa tuttavia spesso una visione ricca insieme di luoghi comuni e di giudizi sommari sulla realtà di questo nostro mondo globale. Per esempio, il fatto che i poveri diventano sempre più poveri, che la crescita demografica è la prima causa del sottosviluppo, che il cinismo delle multinazionali è alla base del depauperamento del Terzo mondo. Alla base di queste argomentazioni c’è spesso una visione ideologica e strumentale basata su dati magari reali, ma lontani nel tempo o limitati nello spazio.
Vediamo, per esempio il tema della malnutrizione: i dati della Fao (l’organizzazione dell’Onu per il cibo e l’alimentazione) sottolineano che dal 1991 al 2013 la percentuale della popolazione mondiale che non dispone di cibo sufficiente è scesa dal 19% all’11%. Il dato che emerge dalle statistiche sulla povertà e la malnutrizione è che il problema di fondo è soprattutto politico. I progressi tecnologici e produttivi uniti ai miglioramenti nella logistica e nei metodi di conservazione sono tali da offrire più di una risposta ai problemi dello sviluppo. Se questo non avviene è per l’incapacità di regimi inefficienti e corrotti che ancora dominano in molte aree del mondo, soprattutto in Africa.
Vi sono altri temi che condizionano, molto più di quello demografico, le potenzialità di sviluppo. Per esempio, le speculazioni finanziarie che pesano sulla formazione dei prezzi delle materie prime alimentari. O la scarsità di investimenti nelle reti di conservazione e distribuzione, indispensabili come l’educazione alimentare, a ridurre i troppi sprechi che avvengono in ogni parte del mondo. Proprio l’educazione alimentare, peraltro, è un tema che deve accomunare il Nord e il Sud del mondo con un rischio obesità ormai presente anche nelle economie emergenti.
La strada della crescita resta comunque complessa. Lo dimostra lo stesso libro di Deaton dove l’economista scozzese dà un giudizio particolarmente negativo sugli aiuti allo sviluppo. La tesi è quella secondo cui se all’interno di una certa area esistono i presupposti per lo sviluppo saranno questi fattori ad attirare i capitali necessari per mettere in moto il circolo virtuoso dell’economia. Se invece questi presupposti non esistono o sono poco significativi non avrebbe senso portare capitali o aiuti finanziari dall’esterno perché rischierebbero di demotivare anche i pochi elementi positivi presenti.
Ma il problema del sottosviluppo non va affrontato solo secondo i parametri dell’efficienza, ma anche nella dimensione della responsabilità e della solidarietà. Vi sono mille esempi di come interventi esterni abbiano aiutato la qualità di vita di piccoli o grandi villaggi, di come medici occidentali abbiano combattuto malattie ed epidemia, di come iniziative mirate hanno alzato la qualità di vita costruendo acquedotti e insegnando i più moderni metodi agricoli.