Quando a metà dell’Ottocento Thomas Carlyle definiva l’economia una “dismal science”, una scienza triste, non criticava tanto il sistema economico, quanto le interpretazioni e le analisi dei grandi economisti di quel tempo. In particolare, non gli piacevano le previsioni pessimistiche di Malthus e la visione utilitaristica di Bentham: due prospettive che mettevano in secondo piano la capacità costruttiva e creatrice della persona e la possibilità della società di muoversi secondo valori che non rispondessero solo all’interesse materiale. E lo stesso Carlyle arrivò anche a parlare di “pig philosophy”, di filosofia dei maiali, quella che pretendeva di escludere le visioni ideali dalle motivazioni del comportamento umano.
Bisogna forse dire che molti economisti del secolo scorso hanno fatto di tutto per giustificare l’appellativo di “scienza triste”: le teorie formulate sui modelli matematici e sugli automatismi decisionali, per di più espresse con un linguaggio involuto e ipertecnico, sembravano fatte apposta per creare un fossato tra l’economia e la realtà quotidiana. “Pazzi al potere” li chiamava John Maynard Keynes e, con grande ironia, aggiungeva: “Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso schiavi di qualche economista defunto”.
Il mondo, quello degli economisti, per fortuna è cambiato: anche i severi giudici del premio Nobel hanno dovuto riconoscere più volte negli ultimi anni la stretta connessione tra l’economia e discipline come la psicologia, la sociologia, perfino la filosofia. E l’economia ha perso lentamente il predominio delle leggi astratte, della domanda e dell’offerta, dell’utilità marginale e dei tassi di interesse, della centralità della moneta e del valore di scambio: tutti elementi che riacquistano validità solo se passati al vaglio della visione integrale della persona, il vero protagonista della società.
Questo viaggio costituisce il generoso tentativo di rimettere al giusto posto i valori di fondo, di liberarsi dalla schiavitù delle ideologie, di fondare percorsi sociali in cui anche le mani invisibili possano essere guidate dall’intelligenza e dalla volontà. È il viaggio che un economista saggiamente non conformista come Pierangelo Dacrema sviluppa in “C’era una volta una scienza triste” (Ed. Jaca Book, pagg. 530, euro 22), un libro dove l’economia diventa un racconto, dove il punto di partenza è la dimensione della vita, dove i diversi punti di vista non diventano conflittualità, ma alimentano una crescita reale della società.
In quale altro manuale potrete trovare scritto che gli ingredienti essenziali dell’economia sono tre: il pensiero, la volontà e l’azione? In quale trattato di tecnica bancaria potrete trovare la definizione di moneta come “velocità”? In quale saggio di scienza delle finanze potrete leggere che “la politica economica non esiste”? Ma non si tratta di provocazioni: queste e altre affermazioni nascono da una logica che segue con estrema coerenza i caratteri dell’individuo e della sua azione, un’azione il più delle volte arbitraria e quindi imprevedibile.
È significativo il fatto che tutta la parte conclusiva del libro di Dacrema sia dedicato all’ipotesi, sicuramente utopistica, ma forse per questo ancora più affascinante, della transizione di una società senza denaro. E questo non perché si sottovalutano i vantaggi che il denaro, una realtà vecchia quanto il mondo, ha portato all’efficienza degli scambi, quanto perché “il lato forse più inaccettabile della moneta – afferma Dacrema – è la sua pretesa di porsi come spiegazione definitiva del valore”. Come non riconoscere i grandi problemi che ha creato l’aver fatto diventare il denaro un fine, e non un semplice strumento, un obiettivo da conquistare, e non un semplice indicatore. Certo un superamento della visione tradizionale del denaro non appare facile e soprattutto appare un’ipotesi tale da attirare immediato scetticismo e profonde opposizioni.
Resta il fatto, e qui sta il lato bello delle ipotesi di Dacrema, che riflettere sulle distorsioni che il mito del denaro ha creato non può che aiutare a mettere a fuoco i limiti di un equilibrio sociale che ha realizzato grandi progressi insieme a pesantissime crisi e iniquità. Una soluzione di tecnica economica non può esistere. Ce n’è una che ha bisogno di tutte le discipline e di tutte le scienze sociali: si chiama fiducia, una fiducia nelle persone su cui costruire l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale.